Come se niente fosse, Gramellini lo scrive su «La Stampa». Prima di Icardi e della sua (a dir poco) discutibile biografia, nessuno sarebbe mai stato capace di riuscire nell’impresa di mettere un libro in mano a un ultrà. La risposta all’illustre (si fa per dire) giornalista la lasciamo alla penna di Francesco Berlingieri da Foggia. A noi resta un dubbio: ma saranno gli ultrà a non aver preso mai in mano un libro o la borghesia intellettuale – e classista – di questo paese a non ricordare più cosa significa assaporare l’impronta di un anfibio nel posto dove non batte il sole?
Gli amici – su certe questioni solerti fino alla premura – mi hanno segnalato un articolo di Gramellini. Mi hanno caldamente istigato: “Leggilo! Leggi la chiosa!”. Ed io, evidentemente incline ad un perverso autolesionismo, non me lo sono fatto ripetere due volte. Gramellini, pensavo. Gramellini non mi suscita niente. Piuttosto, evoca. Mi evoca. Un mondo letterario intangibile oltre una coltre di densa e concreta foschia; uno di quei mondi immersi in scenari che di solito utilizzano l’espediente cinematografico delle foglie di palma che si separano a spalancare ciò che c’è oltre la giungla più fitta, per palesarsi al grande pubblico: la socialdemocrazia da salotto immersa nella natura selvaggia, in cerchio, attorno al fuoco a dibattere di Melville e di Kubrick. Nulla più di questo. Eppure, a quanto pare, costui è passato dalle previsioni del tempo alle opinioni che pesano. Millanta una penna sferzante. Come Michele Seta. Scrive su La Stampa. Cerco, trovo, leggo. Gli Ultrà del Libro, si intitola il paragrafetto che i miei premurosi sodali mi hanno segnalato. Arguisco, intuisco, sorrido. “Leggi la chiosa!”. Leggo: “Giurati di Stoccolma, se il dramma di quest’uomo non vi sembra già un motivo più che sufficiente per dargli il Nobel, eccovene un altro che scioglierà i vostri residui dubbi: Icardi è il primo scrittore al mondo che sia mai riuscito a mettere un libro in mano agli ultrà”. … Dovrei avvertire un turbamento emotivo, ascensionale, sempre più fisico. Una carica di fanteria sullo sterno, a risalire. Gli arcieri francesi di Azincourt, quanto meno. Un arrossamento del collo, o di parte di esso. Ma niente. Nessun dolore, come cantava Battisti. Nessun fremito, men che meno la sorda rabbia che deriva dall’ingiusto e dalle sue manifestazioni. Piuttosto il sorriso di cui sopra, che tende a spalancarsi anziché no. Dev’essere come dice qualcuno, che sono diventato adulto. Ma un breve resoconto degli ultimi tempi mi fanno scartare l’ipotesi. No, non c’entra l’età. E non c’entrano neppure i chilometri. È che considero la sottovalutazione l’atto più strategicamente sconsiderato che si possa compiere, quando si parla con lapidaria sicurezza del misconosciuto. Senza supplemento di analisi. Sorrido, sì. Perché del mondo misconosciuto a Gramellini faccio parte. E mi piace doppiamente la sua supponente assertività. Mi piace provare quella pungente eccitazione che mi coglie quando qualcuno mi svilisce, utilizzando un preconcetto (suo o condiviso) come puntatore ad infrarossi. E mi piace altresì l’idea d’essere arruolato d’ufficio, meritocraticamente, tra le schiere dell’orda barbarica che preme sul circolo dei poeti estinti, provocando in costoro un tremore tangenziale tra la paura e il piacere perverso. Delle due, la seconda. Guardate, per appartenenza sottoculturale, per pratica dissonante, per mai sfumata adolescenza, ho sempre goduto della sconfitta di Varo nella foresta di Teutoburgo. Più volte, per provare a perimetrare i nostri fantasmagorici contorni in una figura retorica definita, siamo ricorsi alle immagini delle tribù nordiche, delle comunità non civilizzate, dell’irrimediabile “altro”. Che sia la fierezza dell’azione cantata in ostrogoto o lo “yawp” di Whitman, mi sono (e ci siamo) sempre sentiti a casa, tra le capanne indomite oltre il Vallo di Adriano o il Limes renano. Un editore romano, mesi fa, ci ha addirittura citato un volo pindarico di Bordiga (sì, quel Bordiga lì) in cui l’elogio della barbarie contro le velleità di un Impero che non s’avvede della propria decadenza diventava tutt’uno con l’auspicio – profetico, c’è da dire – di un socialismo prossimo venturo. … Ora, socialismo a parte, Gramellini è un poveruomo. Peggio per lui, è uno dei tanti. Pacato, per nulla febbrile, sereno nel giudizio inappellabile, senza mordente o pathos, è la condensazione di un sentire. Il sentire di una parte politica – e culturale – che per almeno trent’anni ha smesso di comprendere il basso (se non nell’accezione intellettuale della poetica di un Rabelais, o di un Villon). E che, anzi, del basso hanno smesso di curarsi. Inorriditi e disdicevolmente attratti dalle attitudini che attribuiscono al popolo: l’irrazionale, il violento, il passionale, sono sfumature che la buona borghesia progressista, illuminata e talvolta illuminista, non concepisce. Ma adora circoscrivere, nella speranza che si noti lo scarto, l’evoluzione della specie che loro stessi dovrebbero rappresentare, epigoni di quei patrizi che bevevano vino di Chio mentre gli schiavi si squartavano a vicenda nelle arene. … Il bello è che proprio l’aspirazione alla diversità, il costruito distacco spacciato per istintiva distanza dalla plebaglia, sono gli arnesi che non devono mai mancare nel laboratorio in cui si forgia il Conformismo. Come la Shelley col suo mostro, o lo sceriffo di Notthingam con le sue spade d’acciaio spagnolo, le fucine del pensiero medio sviluppano eccellenze inavvertite, primi della classe che in strada sarebbero simili all’intellettuale gramsciano come un secchione a un Franti. Gramellini – e come lui tutti quei sinistri individui che, dalle poltrone Luigi XV della loro inoperosità sociale attribuiscono ai bassi istinti popolari l’inazione complessiva – non comprende che l’internità ad una massa non è il suicidio rituale dell’individualità; che l’accettazione di un gioco sociale fatto di schemi, codici, regole e passione non è adesione acritica ad uno stereotipo di comodo. Che ho visto esponenti di quelle “frange estreme” del tifo calcistico ai picchetti per la difesa dei posti di lavoro delle fabbriche delocalizzate, alle presentazioni dei libri e ai banchetti di controinformazione, in misura assai più considerevole rispetto ai soloni della buona cultura nostrana. Che ho conosciuto ultras vivacemente appassionati di Raffaello, di Bunker e di Doyle a fronte di frotte di intellettuali appisolati sul ramo la cui cultura, oltre lo sfoggio dell’erudizione, annega nel più cupo stagno del nozionismo. Che fu un tecnico delle luci tendente al punk, in una pausa del lavoro, a parlarmi, per primo, di Calderon de la Barca. Che nonno Antonio, nato e cresciuto in campagna, mi raccontava di Rinaldo e dei dodici paladini di Francia per farmi addormentare. Anche se, c’è da dire, di solito crollava prima di me. … In sintesi. Sì, mi si sottovaluti pure; mi si ritenga pure un lanzichenecco assetato di sangue e di saccheggio; si parli di me e dei miei amici come di un reietto della società, intellettualmente limitato ed incapace di andare oltre la monodimensione di un ruolo temporaneo (tifoso di calcio, idraulico o utente della Tim). La complessità del reale è essa stessa l’assedio che stringe nei palazzi l’intellighenzia; e, come in Sartre, finirà per esserne l’inferno.
Francesco Berlingeri – Foggia