Anche noi ci siamo lasciati sedurre dalla maratona elettorale in quello che sembrava a tutti gli effetti una partita di calcio, più precisamente uno di quegli scontri diretti per evitare la retrocessione a metà primavera, in cui l'importante era principalmente non perdere, pena la scomparsa, da un lato dell'esperienza governativa (una delle più sciagurate dell'Italia repubblicana) e dall'altro, quello che in mezo a tanti “compagni di viaggio” a dir poco scomodi e fastidiosi potremmo comunque riconoscere come “il nostro”, di quel briciolo di agibilità sociale e politica che difendiamo ancora con le unghie e con i denti giorno per giorno, aspettando momenti migliori per ripartire in contropiede e segnare punti a nostro vantaggio.
Ma nonostante il referendum che ha chiuso una delle campagne più dure e senza esclusione di colpi degli ultimi anni in Italia (anche perché, a ben vedere, a parte referendum ed elezioni amministrative non è che ci abbiano fatto votare così tanti negli ultimi anni...), la nostra attenzione era rivolta a quanto accadeva dall'altra parte dell'Atlantico dove a Cuba in un autentico bagno di folla si teneva l'ultimo saluto a Fidel Castro. Sarebbe superfluo dire quanto siamo rimasti colpiti dalla morte del Comandante, uno di quegli eventi che nonostante la razionalità ti dica chiaramente il contrario, pensi sempre che non avverrà mai. Proprio per questo abbiamo riflettuto, decidendo di non pubblicare niente di specifico, perché non eravamo preparati, e allo stesso tempo una figura straordinaria come la sua non meritava affatto per commiato qualche riga retorica scritta di fretta. Ci sono analisi molto approfondite su diversi siti e portali di movimento, così come la mala-informazione non si è fatta sfuggire l'occasione per spargere il suo tradizionale letame.
Proprio in quest'ultimo campo, la cosa che più ci lascia divertiti (a parte il principale quotidiano italiano, quello che si propone di dare un nuovo paradigma al paese, che evidentemente nei suoi tagli al personale avrà licenziato l'inviato da L'Avana, e affida l'informazione su Cuba a un inviato a Miami), è stato constatare un appiattimento generale nei giudizi delle varie posizioni, da Saviano a Salvini senza particolari sfumature differenti, a dimostrazione che la liturgia neo-liberista sia stata ben interiorizzata a tutte le latitudini e di tutti gli attori in campo.
Tuttavia, in questo portale, pur non parlando del miracolo politico e sociale compiuto da Fidel Castro negli ultimi sesssant'anni, non possiamo non soffermarci sull'aspetto sportivo e su come anche questo sia stato trasformato dalla Rivoluzione Cubana. Dapprima infatti, sotto il regime di Batista, a praticare sport era circa lo 0,25% della popolazione, il che voleva dire che in alcune regioni dell'isola era per lo più sconosciuto, e il principale rapporto della popolazione con le attività sportive erano le scommesse sulle corse dei cavalli o dei combattimenti tra galli, quindi erano per lo più spettatori di un'attività cui era loro negato di fatto l'accesso. Al pari della casa, dell'istruzione, dell'assistenza sanitaria e del cibo, anche lo sport è ritenuto un diritto assoluto per la popolazione cubana e le frequenti immagini del Lider Maximo con la mitica tuta sportiva di Cuba o mentre faceva sport, i più disparati dal baseball al basket, testimoniano questo rapporto privilegiato.
Così, il governo rivoluzionario costruì circa 10.000 nuove strutture sportive, preparando quella che fu la vera rottura, vale a dire l'abolizione del professionismo nel 1961, col risultato di aumentare il numero dei praticanti di oltre il 2000% e inoltre grazie alla collaborazione coi paesi del blocco sovietico e l'invio di tecnici stranieri, in diversi sport si creò una specifica “scuola cubana”, tant'è che adesso nelle scuole cubane si praticano vari sport: atletica, baseball, basket, pallavolo e ginnastica. Le selezioni attente e capillari per portare i talenti nelle scuole della Ciudad Deportiva de L’Avana o a quelle della Isla de la Joventud; la cultura degli insegnanti ha pochi eguali nel mondo, senza contare le vicende di alcuni atleti che resteranno per sempre nella storia come ad esempio i pugili Teofilo Stevenson e Felix Savon, il “Caballo” Juantorena, Mireya Luis, Regla Torres e le altre ragazze invincibili della pallavolo, i salti di Javier Sotomayor e Ivan Pedroso.
Ogni loro successo era un successo di tutta l'isola, una dimostrazione che si può sconfiggere il capitalismo, anche senza le stesse risorse a disposizione in ogni campo della vita! Difficilmente riusciremmo a trovare una definizione più calzante di sport popolare.
Sicuramente molto più calzante del desolante scenario cui assistiamo in Italia, dove giusto per non andare eccessivamente a ritroso, ieri si giocavano due anonime partite di Serie A. Con tutto il rispetto per i tifosi delle squadre in campo, ma non riusciamo a cogliere la logica, né tantomeno la necessità del far giocare due partite in un lunedì sera di dicembre nel non caldissimo Nord-Est, se non quella di ingrossare i proventi di televisioni e di agenzie di scommesse che ormai fanno la parte del leone nello spartirsi la carcassa di quello che era il gioco più amato dagli italiani. Ma in fin dei conti anche il derby capitolino merita una menzione a parte: pur non volendo entrare nel merito di quanto successo in campo, per quanto ribadiamo che non ha senso scandalizzarsi se si sente parlare di “guerra etnica” o degli insulti di Lulic a Rudiger quando nei nostri telegiornali, nelle notizie di cronaca nera, la prima cosa che si specifica, in maniera alquanto faziosa, è l'etnia di chi commette il crimine, e i termini anche nelle tribune politiche verso i migranti, spesso non sono più clementi di quelli usati dal giocatore della Lazio, poiché il calcio è come una spugna che assorbe gli umori dell'intera società e non si può pensare di “bonificarlo” se non cambiano i toni e la sostanza nella nostra quotidianità.
Ma quello su cui ci premeva particolarmente ragionare è come ciclicamente si torni a parlare della protesta in curva e si rifletta su cosa ci si perda durante le partite con la loro assenza. La corsa dei giocatori della Roma sotto il settore semi-vuoto, così come la presenza (negata con imbarazzo dalla società, ma sbugiardata dalle foto) di Totti, De Rossi e Florenzi a un incontro con gli ultras per cercare di farli tornare sui propri passi, sono le due immagini più significative in senso positivo che ci lascerà questo derby, molto più delle parole dei soliti telecronisti che avrebbero avuto bisogno di una bella coreografia per rendere più appetibile il “prodotto calcio” anche all'estero, e perché no, magari anche di qualche striscione “scomodo” per riempire di contenuti quelle stucchevoli trasmissioni in cui si passa ore a parlare di aria fritta, come “Tiki-taka”. Ma quello che conta è il senso della protesta e il fatto che solo attraverso di essa e delle grosse rinunce che essa comporta, come ad esempio l'assenza in un derby, che si riescono a far capire le proprie motivazioni e a gettare luce sulla situazione surreale e a dir poco liberticida che si vive nelle curve romane e che mollare adesso senza aver ottenuto nessun risultato tangibile non avrebbe nessun senso, soprattutto quando ancora non si è ottenuto nessun risultato tangibile. Ma vagli a spiegare cos'è una protesta e come si articola a gente che ha passato la propria vita a saltare sui carri dei vincitori...
Giuseppe Ranieri