Non insisteremo tanto sull'assunto che lo sport è una metafora della nostra società: in fin dei conti è la mission che ci siamo posti sin dall'inizio di questo progetto, pertanto nessuno si aspettava che nell'Italia, la terra del gattopardiano "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi", la situazione in seno alle federazioni sportive potesse essere un'eccezione. Anzi, forse proprio queste rappresentano uno degli specchi più fedeli del nostro paese, con un gruppo ristretto di persone che tra nepotismo e illeciti di varia natura non hanno intenzione di scollarsi dalle poltrone grazie alle quali, oltre a incrementare il proprio rendiconto personale, sono riusciti a creare una vasta rete di clientele inscalfibili nel tempo, il tutto ovviamente senza la benché minima rappresentanza femminile.
Infatti, la prima cosa che risalta agli occhi anche dei meno attenti è come non ci sia nessuna donna a capo di una delle 45 federazioni sportive e nemmeno alla guida di una delle 19 federazioni associate. Invece, qualora qualcuno volesse spingersi in ricerche più approfondite, scoprirebbe che una proposta dell'ex olimpionica e adesso senatrice del PD Josefa Idem che introduce un limite di otto anni, cioè di due mandati, per le massime cariche dirigenziali del CONI, nonostante fosse passata in Senato con 143 voti favorevoli, 25 voti contrari e 12 astenuti, sia ormai insabbiata da oltre un semestre alla Camera, nonostante proprio il limite dei due mandati fosse stato uno dei cavalli da battaglia alla fine degli Anni '90, all'indomani della chiusura del laboratorio antidoping di Roma.
Ma in questo campo le anomalie rispetto alla norma rappresentano più che altro proprio la norma.
Infatti son ben 23 i massimi dirigenti che hanno superato il limite dei due mandati, con alcuni casi (riportati dall'Huffington Post) davvero grotteschi: dal senatore alfaniano Luciano Rossi, presidente dal 1993 della Federazione Italiana Tiro a volo che tra l'altro gestisce una fabbrica atta a realizzare piattelli (guarda caso gli unici omologati che possono essere impiegati nelle gare federali, indette dalla federazione da lui stesso diretta), al renziano Franco Chimenti, plenipotenziario della Federgolf che si è visto riconoscere dal governo un finanziamento di circa 60 milioni di euro (oltre ad una non meglio precisata "garanzia" di 97 milioni, poi stralciata in sede di approvazione di bilancio) per la Ryder Cup del 2022, nonostante questa verrà disputata su un impianto privato, il "Marco Simone" di Guidonia e non è dato sapere a quanto ammonterà il totale delle spese, nemmeno in maniera preventiva (alcuni esperti quantificano la spesa in circa 100 milioni, che renderebbero l'edizione italiana la più cara di sempre, basti pensare che per la Ryder Cup del 2018 la Francia ne spenderà all'incirca 40), ma sappiamo solo che il montepremi dell'Open d'Italia è triplicato.
Tuttavia, i casi non si esauriscono certo qui (magari!): Sabatino Arcau, ex deputato di Forza Italia che nonostante una condanna in primo grado per la sanitopoli abruzzese (poi prosciolto), il quale in conformità col codice di comportamento del CONI che avrebbe dovuto indurlo all'auto sospensione, è presidente dal 1993 della Federazione Hockey e Pattinaggio; inoltre Arcau è riuscito a mantenere anche il ruolo di presidente della Firs, la federazione internazionale degli sport su rotelle, nonostante già nel 2008 una commissione di inchiesta nominata proprio dal CONI accertò illeciti nella sua gestione. I soliti eccessi di spese di rappresentanza e rimborsi ai membri della Commissione Federale che tanto ci sembrano noti e che ci fanno venire in mente come davvero lo sport sia lo specchio fedele di questo trasandato paese. Si può poi pensare al presidente della Fipav Carlo Magri, in carica dal 1995 e alla ricerca del settimo mandato consecutivo, oppure a Paolo Barelli, uomo di riferimento del nuoto italiano appena entrato nel diciassettesimo anno di regno e da almeno due in guerra con Malagò, come ad Angelo Binaghi, che governa il tennis italiano dal 2000 nonostante al momento della sua prima elezione promise che non avrebbe superato i due mandati, ma anche in questo caso la nostra nazione ha fatto il callo a ritrattazioni acrobatiche. Anche i presidenti delle prestigiose federazioni di scherma e ciclismo, Giorgio Scarso e Renato Di Rocco, in carica dal 2005, sembrano noncuranti dei vincoli di mandato e, dulcis in fundo, il caso del presidente della Federbocce Romolo Rizzoli, 76 anni di cui 51 passati negli organismi dirigenziali della federazione, che guida dal 1993, non senza macchie: infatti si è scoperto che il titolare della società a cui era stato affidato in gestione il centro tecnico federale di Roma era Andrea Rizzoli, figlio del presidente, a sua volta dipendente della federazione judo, lotta e arti marziali. Per cercare di aggirare il problema e fermare un malcontento montante all'interno della sua federazione, in cui più di qualche iscritto ha espresso seri dubbi sulla validità dell'ultima elezione del presidente, lo stesso Rizzoli ha nominato un commissario ad acta per la revisione dello statuto stesso e fissato nuove elezioni a marzo, alle quali ha annunciato di voler partecipare.
È proprio alla luce di questo infausto affresco che si comprende come nessuno, neanche lo stesso Malagò, sembrasse sorpreso dal destino di questo ddl, adducendo che la nostra cultura non è pronta a cose che, mentre in Europa costituiscono la normalità, da noi costituirebbero la fine di un'epoca quali la fine della possibilità di essere rieletto senza limiti di mandato qualora si ottenga più del 55 per cento dei voti degli iscritti, la possibilità del voto multiplo per delega, e infine la non obbligatorietà del voto segreto.
Malagò per trovare una via d'uscita ha incontrato una ventina di giorni fa il neoministro dello Sport Luca Lotti, fedelissimo di Renzi. Chissà se il Ministro si appellerà alla bontà della riforma sconfitta al Referendum per giustificare quest'impasse alla Camera.
Giuseppe Ranieri