Non ci interessa unirci al coro delle vedove di Berdini, visto che ci sembra già abbastanza affollato, ma quelle dichiarazioni dell'ormai ex assessore, secondo cui “mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo stadio della Roma”, che di fatto corrispondono al “De Profundis” del suo impegno nella giunta pentastellata, non potevano non stimolare in noi diverse riflessioni. D'altronde se uno dei principali pregi della comunità che siamo riusciti a tirare su tutti insieme in questo breve tempo è quello di essere conoscibili e riconoscibili nei percorsi di lotta e di conflittualità che viviamo, gran parte dei nostri lettori potrà immaginare quanto ci sta a cuore la questione abitativa e il progressivo quanto inarrestabile depauperamento delle nostre periferie che ha come unico e concreto risultato la loro trasformazione in polveriere in attesa di qualcuno in grado di saperle maneggiare a proprio piacimento in nome di interessi che non saranno di certo quelli della collettività.
Sicuramente, i più smaliziati non avranno avuto difficoltà a intuire un continuum nelle posizioni della stampa (sia sportiva che locale) dalla paventata candidatura alle Olimpiadi del 2024, alla costruzione del nuovo stadio, passando per un'altra vicenda dai contorni ancora poco chiari, come quella della Ryder Cup di Golf del 2022 (su cui a breve produrremo un approfondimento) che si dovrebbe disputare sempre nella capitale, quasi come se l'importante fosse “fare”, “costruire”, non si sa bene (o meglio non ci è dato sapere) come e dove, purché si faccia qualcosa. Quello che ci preme sottolineare non è tanto come la stampa si sia ridotta a essere nient'altro che il megafono dei grandi interessi, ma come nel nome dell'interesse e della sana passione che lega la Roma ai suoi tifosi, si stia cercando di abbindolare l'opinione pubblica per ribaltare quell'impalcatura teorica che è proprio alla base dello sport popolare: non ci vuole un master in urbanistica per capire che la costruzione di un nuovo stadio, nonostante in città ci siano già quattro impianti (tra cui quel Flaminio tristemente lasciato all'incuria), gioverà agli interessi di una cricca di palazzinari. D'altronde Roma è la patria del “panem et circenses”, ma non si tratta neanche solo di ciò, anzi il peggio probabilmente arriverà dopo l'inaugurazione dell'impianto.
Provando a immaginare il nuovo stadio della Roma, voluto fortemente dalla dirigenza, non si riesce a vedere nient'altro che la realizzazione tout-court dell'idea di calcio di Pallotta & co., vale a dire un business in cui, di tanto in tanto, c'è l'esibizione dei ventidue giocatori in campo, ma che funge poco più che da semplice corollario a tutta quella macchina da business che avrà la forma di un centro commerciale oppure dei salotti extra-lusso da cui qualche turista feticista del calcio potrà guardare la partita. Si fa fatica a immaginare i prezzi dei biglietti a misura d'uomo, giustificando così una capienza ridotta rispetto all'Olimpico in nome di una visione elitaria del calcio; senza contare le ulteriori restrizioni che potrebbe avere il tifo organizzato su cui grava la doppia scure del disinteresse esplicito da parte della dirigenza e, di contro, di quello eccessivo da parte delle autorità: dalla difficoltà a immaginare dei settori da cui poter assistere al match in piedi, alle multe per i cambi di posto, e a tutti i riti di perquisizione, senza andare troppo in là. Insomma, sembra quasi che le mucche festeggino l'arredamento del nuovo macello e quando ci si ferma per strada a chiedere il perché di tanto giubilo, la risposta più comune è che questo è il primo passo per abbattere il gap con la Juventus che da anni detta legge in Italia, più precisamente da quando ha costruito il proprio stadio.
Ora, a prescindere da tutte le (parecchie) zone d'ombra della vicenda inerente la costruzione dello Juventus Stadium, proprio lo scorso fine settimana si sono affrontate le altre due formazioni del massimo campionato dotate di uno stadio di proprietà: l'Udinese e il Sassuolo che non hanno dato vita a un match di alta classifica, anzi tutt'altro, a dimostrazione di come sulla vicenda dello stadio di proprietà si stia costruendo una sorta di ideologia, in base alla quale nessuna squadra potrà coronare i propri obiettivi senza averne uno tutto suo. Non vogliamo essere ideologici in senso opposto, quindi non negheremo ciò che è innegabile, ossia che avere uno stadio di proprietà può dare dei giovamenti ai club, ma solo ed esclusivamente da un punto di vista del marketing, dello sfruttamento dell'immagine e dell'intensificazione dei ricavi; insomma di tutto quel lato commerciale e imprenditoriale che sta tanto a cuore alla nuova leva di presidenti, estranei alla loro comunità di riferimento che il più delle volte viene vista e vissuta come una zavorra da cui liberarsi il prima possibile per riuscire a raggiungere la modernità calcistica. Probabilmente il più degno rappresentante di questo nuovo trend è il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, che in un colpo solo è stato in grado di rovinare la partita più importante della sua gestione, nonché una delle più importanti dell'intera storia del club, di dimostrare per l'ennesima volta di non capire nulla di calcio né da un punto di vista culturale, né da quello tecnico, e di uscire con l'ennesima triste battuta classista riguardo al suo stadio ideale, da 20.000 posti e con le poltrone in pelle umana, dimostrando ancora una volta come non basti avere i soldi e comportarsi da bambini capricciosi per essere dei veri presidenti.
Anche in questo caso il calcio pare essere lo specchio della politica: in entrambi i casi la scena italiana è stata monopolizzata per anni da una persona il cui avvento ha rappresentato l'inizio della seconda repubblica e del calcio moderno e che nonostante sia vituperato da tutti quanti, con ogni probabilità resterà di una caratura superiore (o comunque meno infima) ai suoi tristi epigoni. Fortunatamente, non tutto il male vien per nuocere e di fronte alla realizzazione di quello che per anni è stato l'incubo di vederci scippati del gioco del calcio, ci sono dei segnali di controtendenza che dimostrano che “Un altro calcio è possibile” è molto più di uno slogan, ma un programma da realizzare per non diventare tutti marionette addomesticate. È il caso dei compagni del Quartograd di cui il capitano del Napoli Marek Hamsik è da poco diventato un socio, a dimostrazione di come il lavoro serio e paziente paghi e dia soddisfazioni che ci auguriamo ricadano a cascata su tutte le altre realtà di calcio popolare in Italia, riuscendo a dare quel tocco di umanità di cui c'è sempre più bisogno nel mondo dello sport attuale e che noi di sportpopolare.it, pur tra tutte le difficoltà del caso, proviamo a narrare e incoraggiare, potendo contare da pochissimi giorni su un nuovo membro della nostra carovana, cioè il piccolo Martino Armati che siamo sicuri avrà la tempra da ribelle di mamma e papà a cui tutti noi della redazione ci uniamo per fare i migliori auguri!
Giuseppe Ranieri