Bassi, Lega, via! Per chi non ne fosse pratico sono i tempi d’ingaggio della mischia nel gioco del rugby. Per chi invece il sabato o la domenica varca quei campi, vestendo i numeri dall’1 al 9, questi riecheggiano nella mente come ritmi vitali. Il rugby è uno sport fantastico in grado anche di assumere le dimensioni di una scuola di vita oltre che temprare il fisico: il concetto di “raggiungere un obiettivo attraverso il rispetto, la fiducia e il sostegno reciproco di ognuno dei tuoi 14 compagni di squadra” ridà, seppur in minima parte, un senso solidaristico e umano a quella che è la concezione di comunità e di quotidianità nella fredda e cinica società in cui viviamo oggi.
Tralasciando però quella che può essere la funzione socio-pedagogica di questo gioco, è giusto fare una chiara analisi di quella che è stata la sua evoluzione in Italia negli ultimi 16 anni. Tra poco gli Azzurri di Connor O’Shea affronteranno presso lo stadio di Twickenham a Londra, patria del rugby, la corazzata Inglese in occasione del 6 Nazioni, torneo partecipato anche da Scozia, Galles, Francia e Irlanda. Mi piacerebbe associare questa giornata al 5 febbraio del 2000, vissuta ahimè solo attraverso voci di spogliatoio, articoli o video, quando iniziò l’avventura Azzurra in questo prestigioso torneo allo Stadio Flaminio dove, contro tutti i pronostici, l’Italia vinse con la Scozia 34-20, ma purtroppo è un lontano ricordo, se non soltanto un illusorio grande inizio troppo bello per poter durare.
La cocente sconfitta di due settimane fa con l’Irlanda lascia poco spazio all’entusiasmo dei tifosi mentre solleva una questione che non può continuare ad essere rimandata: il movimento italiano non si è evoluto come quello degli altri paesi e sta affrontando un periodo di reale crisi sotto gli occhi della FIR che sembra non aver dato il minimo segno di cambiar rotta. I deludenti risultati non si limitano esclusivamente al 6 Nazioni, per un totale di 85 partite di cui soltanto 12 sono state vinte, o alla World Cup, dove non abbiamo superato mai il primo turno, ma riguardano anche le performance delle due franchigie italiane partecipanti alla Pro12, competizione europea notoriamente conosciuta come Torneo Celtico: la Benetton Treviso e le Zebre Parma, queste ultime subentrate come franchigia federale sostituendosi agli Aironi Viadana nella stagione 2012-13, difendono a “denti stretti” ultimo e penultimo posto. Sconforta pensare che buona parte degli atleti della nazionale fanno parte di queste due squadre.
Nonostante gli scarsi risultati ottenuti e con la presentazione di un bilancio consuntivo in rosso di 1.128.202 € è stato rieletto il 17 settembre 2016 Alfredo Gavazzi come presidente della FIR, che ha annunciato di ridimensionare il budget per quest’anno, ma la cosa più eclatante è che, della cifra sopraindicata, circa un milione è stato concordato alle Zebre per l’accordo di partecipazione al Guinness Pro12, equivalente al 25% della cifra inerente al precedente progetto di bilancio preventivo di quest’anno. Ora ci si domanda, in maniera abbastanza retorica, che senso abbia avuto e abbia ancora oggi investire così tanto in una competizione europea dove chiaramente il livello è troppo alto per quello italiano oppure finanziare, giusto per riprendere una vecchia prospettiva riguardo la gestione interna del movimento, accademie nazionali dove viene curata maggiormente, ma chiaramente male, la preparazione atletica dei ragazzi rispetto alla loro tecnica individuale, e dalle quali poi molti vengono lasciati al loro destino rugbistico.
Non sarebbe più costruttivo concentrarsi maggiormente nella crescita dei club locali e nei progetti di diffusione come quelli nelle scuole, creando delle realtà stabili e concrete dalle quali far rinascere ed evolvere il movimento, in modo da poter essere in grado di competere realmente in un futuro con gli altri paesi, e non nelle franchigie che hanno un gap troppo alto per il livello nazionale ma contemporaneamente troppo basso per quello dei club della Pro12? È vero che non possiamo vantare un’antica e prestigiosa tradizione rugbistica. Ma è altrettanto vero che quest’inerzia decisionale, dettata principalmente da evidenti interessi dei soliti pochi, sta rovinando ed erodendo questo mondo abbandonandolo in rovina proprio come accadde con lo Stadio Flaminio, oggi visto solo come uno spettro nel quale molti rimembrano glorie passate.