Il 1923 è un anno abbastanza importante per l'Italia. Il PNF (Partito Nazionale Fascista) è salito al potere alla fine del 1922, per essere precisi con la Marcia su Roma svoltasi il 28 ottobre, e, da quel momento, sta acquistando sempre più potere e sta dando il via ad un ventennio che si concluderà con il tragico epilogo del secondo conflitto mondiale.
I fascisti, inoltre, stanno portando a compiumento alcune significative leggi, ad esempio la legge Acerbo approvata il 18 novembre 1923, che porteranno il Belpaese verso una delle pagine più buie del suo percorso storico. Nonostante questo clima di forte repressione, però, ci furono anche alcune forme di ribellione verso Mussolini e il suo partito.
Una di queste fu, senza dubbio, quella portata avanti dalla rivista “Sport e Proletariato” che iniziò a uscire proprio nel 1923. Tale giornale nacque con due intenti ben precisi: contrastare lo strapotere della “Gazzetta dello Sport”, diventato col tempo il giornale sportivo per eccellenza dei fascisti, e, soprattutto, cercare di portare avanti, in qualche modo, quello spirito popolare e socialista ancora molto forte e presente in alcune zone del paese.
“Sport e Proletariato” è stato un giornale che ha cercato di accomunare il mondo calcistico con un ideale politico ben preciso. Tutto ciò nonostante sia stato osteggiato per vari motivi: da quelli politici a quelli economici. La repressione, purtroppo, è stata sempre presente e ha inciso sulla storia di questo giornale per tutta la sua durata.
A questa avventura resistente lo scrittore Alberto di Monte ha voluto dedicare un vero e proprio libro, intitolato “Sport e Proletariato. Una storia di stampa sportiva, di atleti e di lotta di classe”.
L'opera sarà presentata, in occasione dell'avvicinamento al festival “Achtung Banditen 2017”, sabato prossimo, 8 aprile 2017 con inizio alle ore 18, presso il Chringuito Libre al largo Beato Placido Riccardi nel quartiere San Paolo di Roma.
Alcuni giorni fa abbiamo intervistato lo stesso autore del libro. Gli abbiamo chiesto alcune curiosità riguardo la sua opera e come gli sia venuta l'idea di scriverla.
Come nasce l'idea di scrivere un libro come “Sport e Proletariato”?
Il libro nasce dentro la ricerca che mi ha portato a scrivere “Sentieri proletari”. Se il primo testo era una corsa lunga un secolo dentro le alterne vicende di un consorzio di alpinismo popolare e rivoluzionario, in questo invece volevo tornare alle origini nobili di quello e del “nostro” sport popolare. La rivista in sé non era che un espediente da questo punto di vista, eppure resta il tentativo compiuto più interessante, nel Belpaese, di contrastare il monopolio della narrazione sportiva della Gazzetta. Ogni settimana venivano tirate dieci mila copie che erano innanzitutto le cronache degli sport minori, le corrispondenze estere, i fatti di borgata e, purtroppo, pure le denunce delle aggressioni ad essere compilate e a segnare i ventidue numeri del rotocalco. Ho scritto “Sport e Proletariato” per non far dimenticare i dettagli di un panorama sportivo e politico così ben tratteggiato dalla rivista.
La rivista a cui ti rifai uscì, per la prima volta, nel 1923. Perché si decise di farla nascere in un periodo così difficile dal punto di vista storico e per quello che riguarda la libertà di espressione?
In effetti la decisione era presa da tempo ma alcuni dei suoi promotori, all'indomani del “Biennio Rosso” e dei ripetuti assalti alla sedi del giornale “Avanti” di Milano, erano passati per le patrie galere. La pubblicazione fu così avviata a più riprese fino al luglio del 1923. Siamo all'indomani della Marcia su Roma e a soli tre anni dalla censura definitiva di ogni possibilità di libero pensiero determinata dalle cosiddette “Leggi Fascistissime”. Una sfida, insomma, quasi impossibile specie col senno di poi. Eppure, proprio in quei convulsi mesi, si riparte dallo sport e dal suo racconto. Gli autori della rivista provano a risemantarizzare il fatto sportivo ribaltandone il significato sociale altrimenti fondato su concetti quali patria, nazione e razza. Lo fanno facendo fronda, certamente non da soli, nella stessa sinistra rivoluzionaria e non. Lo fanno osando una nuova alchimia tra discorso sportivo e politico, organizzativo e pedagogico.
Nel tuo libro parli chiaramente di repressione: una delle caratteristiche, ahimè, dal panorama sportivo attuale. Un tuo commento al riguardo? Come mai si è arrivati a ciò?
Nel libro mi concedo alcuni brevi approfondimenti sul fatto sportivo come fenomeno socio-storico, come fatto non pensabile al di fuori di una cultura, di un territorio, di un tempo. Fin dall'antichità la pratica sportiva, e per estensione quella ludica e ginnica, sono state stressate al servizio di un ideale, della distrazione dalla rivolta, dell'unità di popolo e potremmo proseguire. Anche i nobili intenti dei nostri compagni del 1923 non si sottraggono certo al tentativo. Lo sport non solo giocato ma tifato, lo stadio come un suo spazio elettivo, la massa come sua espressione corporea, hanno perciò acquisito un'importanza peculiare, nel corso del XX secolo, con la nascita del tifo moderno. Dentro questi spazi fisici e simbolici agisce un dispositivo di controllo e repressione sociale e tecnologica piuttosto preoccupante. Dal panem et circenses al laboratorio di chimica e ritorno.
Pensi che al mondo d'oggi ci siano alcune realtà, come quelle legate al mondo del cosiddetto “sport popolare”, che cerchino di contrastare in qualche modo queste caratteristiche dello sport “di cartello” e che si rifacciano a ciò che descrive in “Sport e Proletariato”?
Di più. Io volevo proprio far emergere come dentro la gestualità di ciascuno di noi, nei corsi delle polisportive, nelle squadre amatoriali, nel gruppo alpinistico, nel gioco coi più piccoli, riscopriamo un'accumulazione di fatti che è lunga un secolo, mai sopita. Senza essere agiografici esistono delle linee di frattura, si pensi al carteggio sul rapporto con le federazioni negli sport di contatto; però ci sta un fermento inedito da una quindicina di anni. C'è la capacità di mutuare in pratica quello che, spesso, si fa solo bandiera. C'è, quantomeno in potenza, la possibilità di dimostrare l'esistenza di un altro mondo, di uno stile incompatibile, di un significato se non inedito quantomeno singolare di sport popolare.
Nel libro vi è anche un chiaro riferimento al connubio tra sport e politica che però, oggigiorno, è cambiato assai. Quali sono, secondo te, la cause che hanno portato ad un tale cambiamento? Perché proprio l'estrema destra detta legge, nella maggior parte dei casi, all'interno degli stadi italiani?
Io non parlo dell'oggi nel libro. Svincolo incontrando quattro compagni e compagne, attraverso cui volevo, in appendice, restituire voce alle molte anime del panorama contemporaneo. Non sono mai stato un tifoso, è una passione più fisica quella che mi fa innamorare pure delle storie. Di certo, più della repressione potè la lotta per il controllo e il potere, la commercializzazione totale del fattore stadio, gli interessi ad espellere il gruppo e, ancora prima, il discorso refrattario. Poi è intervenuta la distanza che però, spesso, è sintomo di un'alterità positiva e progettuale più che di rinuncia. In verità, queste, sono semplici parole con cui giustificare. Quello che penso è che ci sia bisogno di ricostruire, anche per tornare a giocare fuori campo, anche in trasferta. Lo si fa in molti modi: uno di questi è raccogliere storie per far sì che non si dimentichino, un altro riprenderne in mano l'eredità. Io le provo entrambe per vedere se ci sta un sentiero adatto. Penso che altri facciano benissimo a resistere dove l'estremo capitale, anche con il volto della destra, profana uno spazio di liberazione, come quello sportivo.
Roberto Consiglio