Un pezzo un po' romantico, permettetecelo, dedicato a chi fa il tifo. Ma in particolare a chi, nella maggior parte delle stagioni, lotta per non retrocedere, o per risalire dalle categorie inferiori. Ai tifosi di provincia insomma, che lontani dai riflettori delle lotte per lo scudetto o l'Europa fanno un “all in” di tutte le emozioni possibili.
È maggio, di nuovo. La domenica pomeriggio alle 15 il sole inizia a bruciare davvero, il calore rimbalza dalle gradinate e avvolge tutto, fa soffrire. Ogni sorso di birra è una benedizione per la gola, una coltellata allo stomaco e un altro po' di piombo fuso nel cervello. D'altra parte, lo stomaco e il cervello sono già provati di loro. È anche retorico dirselo, che ci si gioca tutto. Siamo alle ultime 3, 4 di campionato. E le settimane sono faticose, perché si rimugina. Nei momenti di solitudine o nelle infinite chiacchiere con i compagni di sventura, in cui si scandagliano tutte le possibili combinazioni di risultati nostri e delle avversarie. Si confrontano gli stati di forma, fisici ed emotivi, e le difficoltà del calendario. Si formulano ipotesi di complotto: le squadre senza più obiettivi regaleranno punti, tranne che a noi ovviamente, sti bastardi. Si pensa se durante l'anno i ragazzi potevano fare meglio, sti bastardi. Oppure già li si ringrazia per la grande stagione che li ha portati inaspettatamente a lottare fino alla fine. Ma in ciascuno dei casi, oggi tocca stargli vicino. Siamo in gioco anche noi, anzi in un gioco ancor più crudele, perché di fatto ci vede impotenti: in nessun modo potremo impedire che un pallone si stampi sul palo, non potremo fare in modo che la nostra punizione si infili sotto l'incrocio. Ma se perdiamo, ce l'accolliamo tutti. Se vinciamo, è inutile dilungarsi, troppo facile.
La differenza concettuale tra tifosi e spettatori sta tutta qui: non tanto nel quanto forte canti o nel quanto sei disposto a fare a botte per i tuoi colori, ma in questo profondo stare male, in questa maledetta serietà, in questa dedizione missionaria, senza alcun tornaconto e razionalmente inspiegabile. I poli estremi di gioia sfrenata e disperazione assoluta che possono alternarsi in 90 minuti di maggio, addirittura a volte per colpa di risultati che giungono dagli altri campi, sono capaci di strapparti l'anima a brandelli. La scarsezza o la forza della tua squadra, il valore degli avversari, la classifica accumulata durante la stagione, i risultati degli altri campi, un errore arbitrale, sono i regolari elementi del gioco che vanno a fondersi generando un qualcosa che prende la forma di un destino ineluttabile, gigantesco, metafisico, malvagiamente mutevole.
Il tifoso, allo stadio ma spesso anche nella vita, non vive le cose con serenità e disincanto, con l'ironica spocchia di chi rimane in disparte a osservare. Siamo gente che tende a schierarsi, a prendere parte. Noi abbiamo passioni, non hobby. E le passioni sono una cosa seria, sono esperienze che o sono totali o non sono. Da cui non ci si può chiamare fuori. Nemmeno se si è smesso di viverle da protagonisti, nemmeno se si è giurato di smettere, perché l'emozione se si accende non la controlli. Sicuramente questa del calcio è la più strana di tutte le passioni, quella che non hai proprio argomenti di comune raziocinio per spiegare. Ma forse è proprio questo il punto: di un tipo di dedizione simile, come esseri umani, abbiamo bisogno, in un modo o nell'altro. Di crearsi un mondo parallelo in cui lo sfogo della passione accecata dalla fede è totale, in un rito collettivo di simbiosi con una comunità che non fa calcoli, ma sostiene e basta. Se vogliamo proprio dirla tutta, nella storia hanno fatto meno danni le masse di tifosi che le masse di religiosi. E parecchio meno.
E come quasi ogni anno torna questo magone di maggio, che fa da controcanto all'istintiva presa bene per la stagione primaverile e le belle giornate. Ed è anche una sorta di attivatore sensoriale che mette un filo rosso nei ricordi di una vita: lo stesso magone, la stessa tensione di quando a scuola era periodo di ultimi compiti o di esami, e intanto dovevi salire in serie A e la testa andava lì. Il mondo che ti crolla addosso con quel gol del Catania contro la Roma che ti manda in B. Lo stesso strazio, tramutato in gioia folle, di quando, qualche anno dopo, davanti a uno streaming malfermo in una città lontana, ti salvi all'ultimo minuto dei playout della B rimontando da 0-2. Non c'è nient'altro da fare che lasciarsi massacrare anche da questo maggio.
Forza ragazzi. Sarà terribile, e bellissimo. Come sempre.
Matthias Moretti