A che punto siamo arrivati è un qualcosa che abbiamo sotto gli occhi e che quotidianamente viviamo, e non è una cosa bella. Dove vogliamo andare a finire è la vera sfida del pugilato in Italia. È una domanda che andrebbe posta a svariati livelli, a partire da quello più basilare.
Il fattore che più di tutti ha creato danno alla boxe nel nostro paese in questi decenni di scellerata gestione sta infatti al livello più elementare, quello che riguarda la percezione del pugilato stesso, si voglia intendere questa percezione come un qualcosa che arriva dall’interno o dall’esterno. Perché non è forse vero che il minimo comune denominatore tra tutti i problemi che affliggono il nostro sport è che la gente dalla boxe si è allontanata?
Risulta difficile rimanere attaccati a uno sport quando quest’ultimo viene considerato elitario, esoterico. Un qualcosa che non è per tutti, una disciplina da belli e dannati verrebbe da dire, anche se l’aggettivo “bello”, mi dispiace dirlo, è forse meglio lasciarlo da parte quando si parla di boxe in Italia, ultimamente.
Eh già la boxe non è per tutti. È un qualcosa di riservato a pochi, è un qualcosa da super uomini, come si voleva negli anni trenta. Ma mentre la stragrande maggioranza del mondo del pugilato italiano rimpiange nostalgicamente i metodi della prima metà del secolo scorso, il mondo, quello esterno, quello reale, va avanti. E noi rimaniamo lì.
E poi succede che si fanno le belle figure alle Olimpiadi di Rio, o magari che si continui a rinfacciare al resto del mondo quelle medaglie in croce vinte fino al 2012 da quel ciclo di atleti ed entourage così attaccati alla canotta azzurra da avercela ormai tatuata addosso. Pare che dovremo sopportare qualcuno di loro anche a Tokyo.
Nel frattempo le nazioni che contano nella boxe, zitte zitte, e in maniera ben più umile rispetto a noi per lo meno dal punto di vista caratteriale, vincono da che mondo è mondo altrettante medaglie anche in una sola edizione delle Olimpiadi.
Eh ma noi siamo fatti così. Noi italiani sappiamo sempre tutto. Siamo quelli che continuano a menarsela per Joshua vs Cammarelle invece di fare autocritica e guardare al futuro.
Beh, dopo questo bel preambolo dal profondo carattere ottimista ecco che, proprio pensando al futuro, mi viene voglia di raccontare la storia bellissima di un pugile. Una di quelle storie che al pugilato farebbero bene, una di quelle che potrebbero far avvicinare una manciata di persone, anche per semplice curiosità, a vedere degli incontri di boxe.
Non si tratta di un campione, non si tratta di un grande nome. Anzi si tratta dell’ultima ruota del carro, si tratta del diverso, si tratta del “pugile negro richiedente asilo”, quella figura che tanto fa storcere il naso ai senatori della italica purezza pugilistica e non solo. È uno di quei conigli che, come sostengono in tanti, lasciano vigliaccamente la propria patria senza combattere “il nemico” per venire a rubarci il lavoro e stuprare le nostre donne. Già, si tratta di uno di quei vigliacchi senza coraggio che all’età di quindici anni lasciano la famiglia, la propria casa, attraversano mezza Africa, si fanno sei mesi di carcere e tortura nelle prigioni libiche prima di riuscire a raggiungere il proprio obbiettivo, vale a dire quello di rischiare la vita attraversando il mediterraneo.
Eh già. Conigli senza coraggio, questi negri. Ma c’è una cosa che tanti luminari spesso non considerano. Che quando poi arrivano da noi e decidono di scoprire e coltivare una passione, come può essere quella del pugilato, questi negri smidollati e vigliacchi salgono sul ring e di paura... Proprio non ne hanno.
E il negro in questione è talmente vigliacco e smidollato che di paura... Proprio non ne ha.
Il pugile, perché seppure in senso ironico la parola “negro” è già stata utilizzata troppe volte tra queste righe, arriva a Bologna due anni fa. Viene accolto in una struttura a Sasso Marconi, dove i colli bolognesi cominciano a trasformarsi in Appennino, ma allo stesso tempo viene accolto ancor più calorosamente alla Palestra Popolare della Cirenaica, quartiere San Donato, Bologna città. Lì comincia a fare boxe e si appassiona. Si appassiona talmente tanto che ogni sera inforca la sua bici (non una mountain bike) e percorre in discesa i 26 chilometri che servono per raggiungere la palestra dalla struttura che lo ospita, e naturalmente, a sessione di allenamento terminata, quel tragitto dovrà essere percorso anche a ritroso, dalla Cirenaica fino lassù, fino a Sasso Marconi, in salita, col buio, dopo due ore di boxe. Non esattamente la spinta che mette normalmente un atleta nel scendere le scale e raggiungere la palestra più vicina a casa (a Bologna ci sono 9 palestre di pugilato ben distribuite sul territorio).
Se l’attraversare mezzo mondo non ha impedito al pugile di scoprire e praticare lo sport che ha capito di amare, beh, a questo ci pensa la burocrazia italiana. Intendo la burocrazia federale, quella del Coni e della Fpi. Organi tanto meticolosi e diffidenti quando c’è da fare ogni tipo di controllo prima di rilasciare un libretto da agonista, quanto abbondantemente permissivi, per lo meno negli ultimi decenni, quando si deve fare di tutto per mandare allo sfacelo un intero movimento, dal rendere la boxe uno spettacolo poco curato, all’allontanare la gente dalla boxe millantando il carattere dell’italico pugilatore, che deve essere quello dell’eroe e non quello del semplice uomo (o donna), come si diceva sopra.
Ma procediamo per gradi. Dopo quasi un anno di tentativi il pugile viene finalmente tesserato da agonista nella squadra di boxe della Palestra Popolare Tpo, sempre a Bologna, una palestra “amica” dove il pugile ogni tanto si allena. Finalmente può cominciare a combattere.
Succede, però, che in due anni di preparazione il pugile è diventato bravo, tremendamente bravo. Non solo, è un pugile elegante, estremamente elegante. È tecnico, tanto tecnico e fa pure male. Parecchio male. È una macchina da guerra, come sosterrà l’arbitro bordo ring al termine del suo match di debutto.
Il pugile è talmente bravo e ha talmente tanta voglia di coronare il suo sogno, non tanto quello di vincere quanto piuttosto quello di salire finalmente sul ring, che poco importa che al primo turno del torneo, nel primo incontro della sua vita, si ritrovi di fronte come avversario un pugile accompagnato all’angolo da un ex campione del mondo. Uno famoso perché per questioni ideologiche si rifiuta di stare all’angolo rosso. Eh beh signori, la legge nella boxe italiana non è certo uguale per tutti e allora succede che c’è “chi può” e “chi non può”. C’è per esempio chi deve rispettare le regole e starsene zitto, e rapidamente schizzare all’angolo che gli viene assegnato e chi, in quanto ex campione del mondo, ha “tutto il diritto” di fregarsene del regolamento e di rifiutarsi di salire all’angolo dal bolscevico colore.
Chi appartiene alla categoria dei “non può” è senza dubbio l’angolo della Boxe Tpo, che deve in fretta e furia cambiare la divisa dell’atleta da blu a rossa, perché nonostante a loro fosse stato assegnato l’angolo blu, qualcosa in quell’ultima mezzora era cambiato.
Ma poco importa.
Il pugile è talmente bravo che alla terza ripresa doppia magistralmente un diretto destro e l’avversario, di turchese vestito, è ko. Non male come esordio. Vincere per ko contro un pugile portato all’angolo da un campione del mondo.
Il giorno successivo il pugile affronterà in finale un avversario bravissimo, umile e straordinariamente coraggioso, un ragazzo esperto che sta già disputando il suo decimo incontro. Il match è serrato ma alla fine la “macchina da guerra”, il “negro”, si aggiudica match e torneo. Una bella avventura di boxe, non c’è che dire.
Come reagirebbe a una bella favola come questa un movimento in crisi come quello del pugilato italiano, ferito e umiliato troppe volte e sempre più spesso?
C’è chi vuole bene alla boxe, come un grande e rinomato giornalista del settore presente al torneo, che esulta e applaude, ed emozionato corre trafelato a intervistare il nuovo talento, un gesto che vuol dire tanto, ma che soprattutto vuole dire: “benvenuto campione”. Come l’arbitro bordo ring di cui si è parlato sopra che si alza per stringere la mano al pugile al momento di scendere dal quadrato. Come lo staff del Comitato Federale Regionale Emilia Romagna, persone ben al corrente della storia del pugile, che si complimentano vivamente perché anche loro sono orgogliosi di aver fatto la loro parte nell’essere riusciti dopo tanti tentativi a portare finalmente sul ring quel ragazzo. Come la folta schiera di sostenitori, ragazzi e ragazze della Palestra Popolare Cirenaica e della Boxe Tpo e non solo, che per tutto il torneo hanno tifato manco si trovassero allo stadio.
E poi c’è una parte del senato bolognese della boxe. E qui si ritorna subito con i piedi per terra e le braccia penzoloni.
Eh già. Questa storia farebbe un gran bene alla boxe. Altrove però. Non in Italia, o per lo meno, non a Bologna.
Tra le considerazioni più o meno irritanti e le velate minacce scelgo quanto segue:
“Non è possibile che questo pugile sia un debuttante, questo i match li ha già fatti”.
Fino a qui semplice routine. Fastidiosa, sì, ma semplice routine.
“Abbiamo le prove che questo pugile ha già disputato dei match in Africa”.
Incredibile! Pare che il pugile sia addirittura un grande nome! Una personalità! Un atleta la cui carriera è conosciuta a livello intercontinentale! Sarebbe poi stato bello che queste prove fossero state fornite, tanto quanto sarebbe opportuno far presente a questa gente che l’Africa non è un unico stato, visto che la nazionalità del pugile era ignota all’interlocutore.
“Se il tuo pugile combatteva contro uno dei miei, da qui non uscivate con le vostre gambe né lui né te”.
Complimenti per il bon ton e il sano senso sportivo.
“Vanno in giro a fare tanto i puri, poi fanno i furbi come tutti gli altri” (riferito alla società).
Eh, questa fa male. Anche se un come tutti noi sarebbe forse stato più appropriato.
Le smentite immediate e fatte sul posto da parte del personale del Comitato Emilia Romagna non sono sufficienti. Il rincorrersi dei commenti da bancone si protrae per settimane, il gossip nel pugilato italiano è una cosa serissima, le accuse si ripetono e sono sempre più gravi c’è addirittura chi, tra queste persone, approfitta nei giorni successivi di una trasmissione radiofonica di settore per accusare pubblicamente la Palestra Popolare Tpo e il suo angolo di aver portato sul ring un pugile di grande esperienza classificandolo come un debuttante. Si tratta di una grave accusa di illecito sportivo, una di quelle che sul lato pratico non portano a nulla non solo per la loro infondatezza, ma anche perché l’organo di riferimento, vale a dire il Comitato Regionale, è perfettamente al corrente della storia del ragazzo. Ma sul piano sportivo la macchina del fango si è mossa, con tutto il suo strascico di infamia e rancore. Nella mia seppur acerba carriera quindicennale nel giro della boxe, non ricordo situazioni in cui sia stato fatto tanto rumore attorno a un pugile senior debuttante. Altro che Joshua vs Cammarelle!
Non resta che rimanere di sasso e ritornare sull’argomento di apertura di questo articolo. Dal momento che ci troviamo di fronte a un evidente fastidio nei confronti dell’opportunità di godersi ogni tanto una storia dal lieto inizio e da un potenziale lieto fine, mi sorgono spontanee alcune domande, e con queste vorrei rivolgermi ai diretti interessati, persone che se volessero, potrebbero, per il loro prestigio e la loro esperienza, cambiare un sacco di cose con un semplice schioccare di dita. Mi piacerebbe farlo ponendo l’accento non tanto su quanto subito dalla società in questione e di conseguenza dall’atleta, purtroppo, quanto su ciò che si vorrebbe ottenere in prospettiva in semplici termini di “bene del pugilato”. Le questioni sono le seguenti:
– Cosa vorreste dimostrare con queste accuse, se non che nel nostro movimento ci sono persone che quando battono i piedi la terra deve per forza tremare?
– Per quale motivo le palestre giovani non dovrebbero essere in grado di portare sul ring pugili di buon livello, discorso che nel caso della Boxe Tpo aveva già riguardato altri atleti in passato?
Ma soprattutto:
– Se ci si scandalizza nel veder debuttare un pugile talentuoso piuttosto che nel veder debuttare pugili incapaci (cosa ormai all’ordine del giorno) tocca porre l’ultima rognosa domanda, che è proprio quella che si può leggere alla riga due di questo racconto: lor signori sono per caso in grado di dirci dove vogliamo andare a finire? O vogliamo forse far passare il messaggio che “chi mal comincia è già a metà dell’opera”? Sono per caso finiti i tempi in cui se non eri bravo il ring “lo vedevi solo col cannocchiale”?
Insomma. Che meraviglia.
Ma che volete farci, il mondo della boxe italiana è una macchina perfetta, soprattutto quando c’è da tirarsi la zappa sui piedi. Fatto sta, che ben consapevoli di tutto ciò e con un sorriso sulle labbra grande così, alla Boxe Tpo e alla Cirenaica ci si continua ad allenare e si continua serenamente a preparare i nostri atleti e le nostre atlete, tra cui, ovviamente il nostro negro. Il nostro pugile. Il nostro ragazzo. Nel frattempo attendiamo con ansia l’esito di una battaglia ben più odiosa e crudele. Il corso delle pratiche dell’ufficio immigrazione che a breve si esprimerà sulle possibilità di permanenza in Italia di questo grande talento, che oltre alla stoffa del pugile ha anche un nome: Oumar Camara.
Giuni Ligabue Boxe Tpo, Bologna.