Sembra proprio che quella tra la casa Bianca e il mondo dello sporta stelle e strisce, con la NFL a fare da guida, sia una querelle ancora lungi dal definirsi conclusa, in cui ogni settimana si registrano nuovi colpi di scena o novità.
Dopo un atteggiamento a metà strada tra il pilatesco e una velata simpatia nei confronti dei contestatori, il Commissario della NFL, Roger Goodell, ha preso parola ufficialmente per auspicare che tutti gli atleti assistano in piedi all’esecuzione dell’inno statunitense, un classico prima dei match di football.
Evidentemente la vicenda era talmente detonata dopo che la domenica precedente si era toccato forse il picco più aspro della vicenda. Infatti, ad Indianapolis prima del match di football tra i padroni di casa degli Indianapolis Colts e i San Francisco 49ers è stato riproposto l'ormai consueto gesto di protesta da parte di alcuni atleti di inginocchiarsi durante l'esecuzione dell'inno nazionale, ma ciò che ha destato maggiore sorpresa è stata la reazione da parte delle autorità, nello specifico del Vice Presidente Mike Pence e di sua moglie Karen di abbandonare lo stadio di fronte a questa protesta e dopo aver ascoltato l'inno con la mano sul petto. Subito dopo ha fatto seguito un tweet di Donald Trump in cui si congratulava con Pence confessando che era stato proprio il presidente a chiedere al suo vice di lasciare lo stadio qualora l'inno nazionale fosse stato nuovamente oltraggiato con questo tipo di protesta, così come ha confermato lo stesso Pence dicendo che non verrà onorato nessun evento sportivo in cui si mancherà di rispetto all'inno nazionale e alle forze armate americane.
Ma per comprendere come si sia potuti arrivare a quello che sembra a tutti gli effetti un punto di non ritorno e per capire quale possa essere la reale posta in gioco di questo scontro, occorre fare qualche passo indietro.
La protesta ha avuto inizio nell'estate del 2016 a opera di Colin Kaepernick, allora quarterback proprio dei San Francisco 49ers (come vi avevamo già raccontato qui) che nella precedente pre-season aveva cominciato ad ascoltare l'inno nazionale senza alzarsi per protestare contro le brutalità poliziesche subite dagli afro-americani. Nonostante l'ostracismo subito dal quarterback che di fatto si ritrova senza squadra in questa stagione (proprio come auspicato da Trump…), la protesta si è diffusa ed evoluta allo stesso tempo.
Si è diffusa, perché col passare del tempo è stata abbracciata da tanti altri atleti di diversi sport, anche sull'onda emotiva dei fatti di Charlottesville e sulle dichiarazioni infelici di Trump che dopo una prima tiepida condanna dell'aggressione di stampo razzista che ha causato tre morti, ha fatto dietrofront condannando gli opposti estremismi, come se indire una manifestazione contro le discriminazioni razziali e fare un assalto omicida alla stessa siano cose comparabili; nulla di molto diverso da quello a cui siamo abituati in Italia purtroppo.
In ogni caso, oltre al football che lo scorso 24 settembre, ha visto un'adesione totale quando tutti i campioni dei Jacksonville Jaguars e dei Baltimore Ravens hanno protestato insieme prima della partita, anche nell'hockey su ghiaccio ad esempio la stagione regolare è iniziata lo scorso 4 ottobre e nel primo fine settimana di partite l'attaccante dei Tampa Bay JT Brown ha alzato il pugno durante l'inno, mentre nel baseball è stato il turno di Bruce Maxwell, giocatore afroamericano degli Oakland Athletics, a inginocchiarsi durante l’inno. Ma forse il caso più clamoroso riguarda l'NBA, quando Steven Curry, stella dei campioni in carica dei Golden State Warriors, preannunciò che la sua squadra non si sarebbe recata al classico incontro alla Casa Bianca, ottenendo in cambio il ritiro dell'invito da parte del presidente, ma ciò non fece altro che esacerbare la questione provocando anche una dura risposta da parte del Commissario dell'NBA Adam Silver e di LeBron James, che non le ha di certo mandate a dire definendo Trump un idiota e dicendo che andare alla Casa Bianca, da quando è abitata dal tycoon, non è più un onore come prima.
Ma soprattutto la protesta si è progressivamente evoluta in una critica alle politiche di Trump tout court, dovuta non solo alle scelte non esattamente brillanti e inclusive tanto in politica estera che interna, ma anche alla dura presa di posizione che lo stesso presidente ha preso già dagli albori di questa protesta sempre apostrofata in maniera aspra e con un linguaggio tanto colorito quanto duro che ormai è uno dei suoi marchi di fabbrica, fino ad arrivare all'estemporanea richiesta fatta ai presidenti delle squadre di football di licenziare chi avesse offeso l'inno nazionale e al conseguente lancio dell'hastag #StandForOurAnthem ("in piedi per il nostro inno"), oltre a diversi commenti tecnici o presunti tali riguardo all'imbruttimento del football per colpa degli atleti che hanno trasformato quelle che erano "sanguinose battaglie" in "scaramucce".
L'impressione generale che se ne ricava è che il Presidente Trump, da vero volpone della comunicazione abbia cercato di esasperare al massimo, fino a distorcerlo, questo scontro, trasformandolo in un attacco diretto alle Forze Armate (nonostante all'inizio della sua protesta Kaepernick ricevette il plauso di associazioni di veterani di guerra) e all'idea WASP di America proprio per depotenziarlo, creando una divisione manicheistica in cui da un lato ci sarebbero "gli onesti cittadini americani patrioti" e dall'altro "un branco di atleti viziati, strapagati, e per giunta afroamericani vicini agli ambienti liberal-democratici e creatori di discordia nazionale", creando quel classico meccanismo del "noi contro loro" (cioè spostando l'obiettivo della protesta da Trump al suo elettorato o addirittura a tutti gli appassionati di sport) che da sempre viene usato dagli uomini di potere nei momenti di profonda difficoltà. Perché è bene tenerlo a mente, è probabilmente dai tempi del Vietnam che la società statunitense non si riscopriva così divisa al suo interno, in preda alle tensioni sociali e razziali e con una leadership che gioca sull'orlo dell'abisso nucleare, il tutto mentre il proprio strapotere planetario si sta progressivamente erodendo.
Sembra quasi che ci stiamo trovando di fronte a due concezioni di sport: quella da "panem et circenses" rivisitata da parte di Trump in cui gli atleti devono fare solo spettacolo e astenersi dal trattare temi politici e sociali e, di contro, quella impegnata da parte di tanti di questi atleti, almeno 150 sono quelli che hanno abbracciato queste proteste, che paradossalmente proprio per l’atteggiamento inflessibile di Trump (che è bene ricordarlo, ha ricevuto ben 7 milioni di dollari dal mondo della NFL per la sua campagna elettorale…) hanno preso consapevolezza del loro ruolo pubblico, e di quanto la loro unione, in un mondo tradizionalmente improntato all’individualismo (come affermato in una lettera aperta che Russell Okung, offensive tackle per i Los Angeles Chargers ha scritto in risposta al diktat di Goodell), possa ottenere risultati straordinari, come il portare avanti quei messaggi di inclusione e dignità che la controparte politica non è in grado di ascoltare e che nonostante Trump, o forse proprio a causa di Trump, sono diventati ineludibili e sono entrati di prepotenza nel dibattito pubblico.
Giuseppe Ranieri