Un’alternanza continua e incessante di momenti di analisi e racconti personali, la fotografia della brutta situazione, dal punto di vista economico e repressivo, che stiamo attraversando in questi anni, e le mille fotografie del vissuto di ognuno, che poi alla fine sono il vero motivo per cui si continua a portare avanti una passione anche quando tutti gli elementi razionali consiglierebbero di lasciar perdere. Ultras. Parole e suoni dalle curve (Il Galeone, 2017) presenta questo importante elemento di novità e di completezza. Perché parlare di stadio e ultras in termini puramente saggistici e sociologici, pur essendo opera meritoria, rischia di essere qualcosa di asettico, che aggiunge poco e rimastica gli stessi concetti già espressi tante volte. E il racconto ultras romanzesco rimane comunque legato al talento artistico dello scrittore, al gusto personale del lettore, nel tempo si sono viste pagine bellissime e autentiche schifezze.
Questa continua alternanza giova invece sia alla scorrevolezza della lettura sia al fornire una visione completa, umana e politica allo stesso tempo. Poco da aggiungere sui racconti, forniti da una vasta gamma di militanti di curva: là ognuno troverà ciò che gli piace o meno, gli stili sono anche molto diversi tra loro, non resta che leggerseli. Gli intermezzi analitici, curati principalmente da Domenico Mungo, servono a tracciare un ritratto degli ultimi decenni di sviluppo del calcio e dello stadio: un ritratto che, proprio perché molto ben fatto, è terribile. Un asservimento totale ai dogmi del capitalismo a livello di gestione economica dei club e di privilegio per le televisioni e il loro pubblico, e un laboratorio di repressione sociale e politica che ha più volte ridicolizzato il concetto stesso di Stato di diritto. Il tutto costellato dalla costante violenza poliziesca, che tanto ci ha fatto vibrare di rabbia e piangere dal dolore.
Il dibattito su come vivere lo stadio al giorno d’oggi – da ultras ma la categoria è estendibile a tutti i “tifosi”, coloro che vogliono partecipare e soffrire in prima persona e non assistere passivamente da “spettatori” – è apertissimo, e infatti il libro non traccia conclusioni – come potrebbe? – ma fa un punto della situazione e stimola numerose riflessioni. Per questo più che recensirlo forse è utile continuare a spremersi le meningi, a contribuire a questo dibattito.
Con l’instaurazione di quello che per sintesi chiamiamo “calcio moderno” si vuole mettere a profitto, al massimo profitto, ogni aspetto del gioco. E di conseguenza, espellere tutti gli elementi che a questa logica non si piegano, vuoi per ribellione volontaria, vuoi per attitudine spontanea, ma anche dall’altro lato escludere a livello economico coloro che non hanno molti soldi da regalare al carrozzone. Peccato che si tratti della stragrande maggioranza degli appassionati di calcio. Stringendo lo sguardo sull’Italia, con la Tessera del tifoso, il Daspo e tutto il corollario di restrizioni al tifo, il mantra era: “cacciamo gli ultras dagli stadi e riportiamoci le famiglie”. Il risultato è che dagli stadi se ne sono andati tutti, tranne gli ultras. Enormi cattedrali semideserte in cui quegli irriverenti e strani animali continuano a riempire la curva, pur non potendo colorarla come vorrebbero. Le contraddizioni del sistema-calcio sono venute prepotentemente allo scoperto, e a mio avviso questi anni presenteranno occasioni importanti per rilanciare un discorso indipendente rispetto al modo di vivere gli stadi.
Al di là della favoletta del riportare le “famiglie allo stadio”, abbiamo visto negli ultimi anni un rincaro dei prezzi dei biglietti spaventoso, che è destinato ad aumentare con la moda del momento, gli stadi di proprietà. Ed è uno dei motivi per cui, contrariamente a quanto sbandierato, dallo stadio se ne sono andati tutti tranne le tifoserie organizzate e i fedelissimi. Perché di famigliole felici che in quattro sono disposte a spendere 200 euro per una partita nel nostro paese non è che ce ne siano moltissime. Già il modello inglese è nefasto sotto molti punti di vista. Ma qui si pretende addirittura di fare i prezzi inglesi con gli stipendi italiani. Questo è un terreno di battaglia su cui però ci si può far valere, specie nei rapporti di forza locali con il proprio club e la propria città, in particolar modo nelle realtà di provincia.
L’ideale per il sistema che fa profitto sul calcio sarebbe un pubblico borghese, abbastanza numeroso da riempire lo stadio e dare quindi un buon colpo d’occhio in tv, caldo ma educato, che canta cori e indossa colori ma non va mai sopra le righe e non schernisce i potenti. Questo è semplicemente impossibile. E infatti nei nostri salotti televisivi se ne parla sempre di più: queste partite con gli stadi semivuoti, senza coreografie, senza il tifo indiavolato che condiziona il risultato, sono noiose, non fanno bene al gioco ma soprattutto alle vendite. Viene fuori, dal semplice scorrere naturale degli eventi, tutta l’irriducibilità di questo meraviglioso sport a un piano di profitto costruito a tavolino. Figuriamoci cosa può accadere se torniamo a capire come mettere i bastoni tra le ruote, come imporre le esigenze della nostra passione.
Se vorranno uno spettacolo mozzafiato, dovranno permetterci loro malgrado, almeno in una certa misura (da definire sempre, manco a dirlo, coi rapporti di forza),di esprimerci: cominciando dall’abbassare i prezzi e dall’eliminare almeno le restrizioni più assurde, e le misure recenti sulla tessera del tifoso sembrano un primo piccolo passo in questa direzione. Se vorranno stadi gremiti e curve passionali non potranno affidarsi alla minoranza addomesticata, dovranno rinunciare al controllo totale, perché se metti migliaia di persone tutte assieme, senza mediazioni, non potrai mai controllare cosa ne viene fuori. Avrai il bello e il brutto, il pacchetto completo.
Questo non vuol dire che le cose torneranno mai “come una volta”, i processi storici non sono azzerabili. Al contrario, vanno capiti, e vanno trovate le armi giuste per continuare a stare sul campo di battaglia. Non possiamo essere proprio noi dei conservatori o dei nostalgici, convinti che da un periodo buio non si possa uscire, che sia “tutto finito” a prescindere, una cosa che sa quasi di abbandono del campo con autoassoluzione inclusa. Ma le generazioni vanno avanti, e due cose nelle strade di qualsiasi città non mancheranno mai: la passione per il calcio e i ragazzi irriverenti, vivaci, allergici al perbenismo. E le due cose hanno un solo luogo d’incontro naturale. Troveranno i loro modi di esprimersi, di infastidire, di pretendere. Chi ha più primavere alle spalle ha tutte le ragioni per essere disilluso. Ma nessun diritto di far scendere questa passione a chi la inizia a vivere oggi, in questo contesto così difficile, ma sempre calato in una realtà contraddittoria, che non potrà mai chiudere del tutto gli spazi a chi è disposto a lottare per prenderseli.
Matthias Moretti