Decisamente meno reclamizzate di quelle estive di Rio de Janeiro del 2016, le Olimpiadi invernali di Pyeongchang partono suscitando più interesse tra gli analisti di geopolitica che tra gli appassionati di sport. Per rendersene conto, basti vedere con quanto poco entusiasmo siano stati acquistati i diritti televisivi da parte della RAI (ma sempre meglio rispetto ad altri paesi che, come vedremo a breve, hanno deciso di non mandarli proprio in onda per scelta politica), quasi come se la pomposa retorica del grande evento abbia ceduto il passo a quella dei costi e dello scomodo lascito di strutture inutilizzabili e costoso che questi si portano in coda. Cionondimeno, raramente il motto fondante delle Olimpiadi moderne, “L’importante è partecipare” sembra calzare a pennello.
Non ci riferiamo tanto alla più grande partecipazione di sempre da parte di selezioni africane, col debutto ufficiale della Nigeria (esordiscono anche nazioni di altri continenti come la Bolivia, l’Ecuador e il Kosovo), di quegli atleti che pur di esserci a distanza di due anni hanno cambiato non solo disciplina, ma anche nazionalità o anche della simpatica storia del ghanese-olandese Akwasi Frimpong che per finanziarsi il viaggio ha venduto aspirapolveri, segno di come sia tempo di vacche magre per il paradigma cosmopolita; ma come abbiamo accennato in apertura, ci riferiamo alla tenuta delle relazioni internazionali.
È innegabile che gli occhi di tutti siano puntati ai rapporti tra le due Coree, ripresi proprio in occasione della preparazione dei giochi olimpici, che ha avuto un forte impatto emotivo sin dalla cerimonia di apertura in cui le due selezioni hanno sfilato insieme sotto la bandiera della Corea unita (tuttavia non è la prima volta, essendo già successo a Sydney nel 2000, Atene nel 2004 e Torino nel 2006) e raggiungerà l’apice con la squadra di hockey sul ghiaccio femminile che, pur non essendo accolta con entusiasmo dalle parti del CT del Sud, accoglierà dodici atlete del nord. Tuttavia, sarebbe fuorviante credere alla retorica del trionfo dello sport sulla politica, anzi forse è corretto l’esatto contrario, visto che è sì vero che i rapporti tra le due Coree siano ripresi dopo anni di gelo, grazie anche al cambio al governo a Seoul e all’intraprendenza di Kim Jong lesto a cogliere la palla al balzo per uscire dal cùl-de-sac delle schermaglie con Trump, ma sostanzialmente non dovrebbero esserci dei cambiamenti sostanziali nello scacchiere geo-politico dell’area, anzi Pyongyang ha ribadito il diritto a dotarsi di un armamento atomico. In ogni caso bisogna riconoscere una prova di maturità da parte del CIO che si è dimostrato flessibile concedendo una proroga temporanea per poter permettere agli atleti nordcoreani di iscriversi a dispetto del suo stesso regolamento.
Ma probabilmente la più grande prova a cui era chiamato, riguardava il comportamento da tenere nei confronti degli atleti russi e dello stesso comitato olimpico della Russia, dopo il grosso polverone dello scandalo doping a quel maestoso evento di propaganda putiniana che sono state le Olimpiadi Invernali di Sochi del 2014, ma anche dopo la revoca di ventotto delle quarantatre squalifiche a vita imposte in precedenza. Il risultato che ne è uscito fuori è stato un raro esercizio di cerchiobottismo da parte di tutte le parti in causa.
Da un lato il CIO, che deciso a perseguire la sua lotta ideologica ancora prima che politica contro il doping, pur mantenendo la squalifica della federazione olimpica russa e la condanna dei suoi vertici, ha consentito agli atleti russi reputati puliti (centosessantanove per la precisione) la possibilità di partecipare a Pyeongchang con la formula non esattamente neutra di “atleti olimpici provenienti dalla Russia” pur non concedendo loro né la possibilità di sfilare con la propria bandiera (mentre a differenza di quanto si pensava in un primo momento saranno tollerate sugli spalti se esposte dai propri tifosi), né la possibilità di ascoltare il loro inno nazionale in caso di conquista di medaglie. Dall’altro Putin, nuovamente lanciato in campagna elettorale, che ha avuto modo di sfruttare la vicenda a suo favore, perché se ha di fatto evitato che questi giochi olimpici fossero trasmessi in Russia, ha tuttavia dichiarato che pur accettando la sentenza e rispettando il CIO si rende conto che questo sia sottoposto a forti ingerenze politiche (rimarcando come la WADA sia un’agenzia privata o quasi e non sia un organo ufficiale), utilizzando a supporto di questa la revoca delle squalifiche e puntando a declassare la natura dell’accusa che ha colpito la Federazione Russa da “sistematica manipolazione” a fenomeno personale, scelta di alcuni atleti. La verità è che probabilmente la Russia si è ritrovata a mordere il freno, perché a giugno si troverà a ospitare il Mondiale di calcio e a tal proposito potrebbe essere illuminante l’esempio di Vitaly Mutko, fedelissimo di Putin e Ministro dello Sport russo dal 2008 al 2016 (quindi in carica durante le incriminate Olimpiadi di Sochi), squalificato a vita dal CIO , è stato messo a capo del Comitato organizzatore dei Mondiali. E allora via a questo giro di valzer diplomatico a cui l’unica che sembra essersi sottratta è l’atleta Olga Graf (perché come distrattamente hanno dichiarato più volte i giornalisti di settore, “a Pyeongchang c’è anche lo sport”), che in solidarietà ai suoi colleghi squalificati, ha rinunciato alla partecipazione, dichiarando lo “sport uno sporco affare politico”. Accuse pesanti, ma che in fin dei conti non dicono nulla che non sappiamo già, visto che eventi simili, dalla nascita delle Olimpiadi Invernali lo sport è uno strumento diplomatico al pari di altri e siamo sicuri che siano condivise da molte più persone di quanto lo affermano in questo particolare momento.
Noi da parte nostra, ne parleremo domenica 25 febbraio a partire dalle 18.00 al Sally Brown con Nicola Sbetti, docente di storia dello sport, per riuscire a individuare e svelare tutte le connessioni segrete o meno tra lo sport e la politica, per comprendere meglio le dinamiche del presente e non farci prendere da facili entusiasmi.
Giuseppe Ranieri