Il mondo della militanza politica di sinistra ha da sempre interessato vari ambiti sportivi a livello mondiale. Uno di questi eventi, proprio in questo 2018, vedrà cadere il suo 50esimo anniversario.
Il 16 ottobre 1968, infatti, durante lo svolgimento della XIX edizione dei Giochi Olimpici a Città del Messico, due atleti afro-american, Tommie Smith e John Carlos, vinsero la medaglia d'oro e quella di bronzo nella finale dei 200 m di atletica. Durante la premiazione i due atleti salirono sul podio scalzi e sollevarono il pugno chiuso avvolto da un guanto nero, senza cantare l'inno nazionale americano.
Il tutto per portare il loro supporto al movimento del Black Power e all’“Olympic Project for Human Rights”. Entrambe queste organizzazioni, in quegli anni, si battevano per sconfiggere un male come il razzismo che “interessava” gli Stati Uniti d'America.
Ad immortalare quella scena, che sarebbe diventata conosciuta in tutta il mondo, fu la fotocamera Nikon di un certo John Dominis. La foto è diventata una delle più conosciute a livello mondiale visto che, per trasmettere il loro chiaro e semplice messaggio, né Smith e né Carlos hanno avuto bisogno di compiere chissà quali gesti. Bastò un semplice movimento del corpo per levare quel velo di indifferenza sugli occhi del mondo intero che non voleva sapere niente di una situazione assurda che interessava, da parecchio tempo, quello che ama definirsi il paese più democratico del mondo.
Su quella foto ne sono state raccontate molte, ma nessuna ha cercato di fermare il processo di mercificazione e sovraesposizione che vi è stato su quello scatto vista la sua bellezza. All'incirca un anno fa su quel gesto è stato scritto un bellissimo libro, dal titolo “Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria”, dalla penna di Lorenzo Iervolino.
Questa stessa opera verrà presentata sabato prossimo, 10 marzo, al centro sociale Acrobax, durante la seconda giornata di avvicinamento al festival “Achtung Banditen” del prossimo aprile.
La giornata, inoltre, vedrà lo svolgimento di alcuni eventi legati al mondo di quello che viene definito “sport popolare”. Si comincia alle 11 di mattina con l'allenamento di minirugby riservato alle giovani generazioni. Alle ore 14 prenderà il via la prima edizione della “Achtung Banditen Cup” tra la squadra degli All Reds Rygby di Roma e la Teramo Rugby.
Alle 18:30 si terrà la presentazione del libro sovracitato a cui prenderanno parte lo stesso Iervolino, il giornalista e scrittore Claudio d'Aguanno, il giocatore della Teramo Rugby Davide Rosci e il blog di narrazione sportiva militante “Minuto Settantotto”. Alle ore 20, infine, comincerà la cena sociale che è servirà a raccogliere i fondi per finanziare il festival Achtung Banditen 2018.
In chiusura riportiamo il comunicato sulla giornata del 10 marzo scritto dagli stessi organizzatori dell'evento:
Se oggi dovessimo scendere nel dettaglio e dare un significato più concreto al concetto di “sport popolare”, non potremmo che partire dall’indissolubile rapporto tra business e sport e la sua degenerazione, ormai inarrestabile da qualche anno a questa parte. Essere parte di un’esperienza che mette al centro del suo progetto queste due parole, sport popolare, significa oggi combattere quel germe malsano della nostra società che mira a trasformare in fattori di profitto i veri valori dello sport. Con il termine popolare, invece, intendiamo per prima cosa la possibilità di garantire lo sport alla stragrande maggioranza delle persone, trasformarlo in uno strumento di partecipazione e sana competizione.
Condivisione, abbattimento di ogni barriera sociale, sessista, culturale, razziale ed economica, sono gli obiettivi dello sport popolare: al centro dello sport popolare, quindi, c'è la persona che si affaccia allo sport con le proprie abilità e disabilità, senza che queste ultime precludano la possibilità di praticare l'attività fisica.
Esistono molte realtà in Italia, nate dal basso e in autonomia, che pur partecipando ai tornei delle grandi associazioni o federazioni mantengono una propria indipendenza, soprattutto nel modo di intendere lo sport. Oltre ad essere inteso in chiave sociale, lo sport popolare è uno strumento teso alla riappropriazione di qualcosa che oggi non è affatto scontata, a partire dal tempo libero per praticarlo, o dalle strutture che ne garantiscono la riuscita. Le parole chiave, dunque, sono "riappropriazione" e "diritto”: le basi per una vera Rivoluzione nel mondo dello sport, in continuità con la costruzione di una nuova idea di società e comunità.
A favorire lo sport popolare oggi sembra essere anche il modello che esso rappresenta, che rifiuta le logiche (e gli scandali) dello sport mainstream, fatto di doping, partite truccate, business milionari e pay tv. Uno sport pulito, insomma, che mette al centro la coesione sociale e la difesa dei beni comuni, contro le logiche speculative e finanziarie che contraddistinguono sempre più l'agonismo e il professionismo.
Lo sport, specialmente nel secolo scorso, è stato spesso utilizzato come strumento di celebrazione di una presunta superiorità, legata alla razza o a volontà di espansione coloniale e politica.
Nel 1934 e nel 1938, nel pieno della dittatura fascista, il trionfo azzurro ai mondiali di calcio divenne vanto del regime che glorificò le doti dell'uomo italico, degno erede della tradizione imperiale e dei suoi fasti. Non fu da meno Adolf Hitler, che delle Olimpiadi del '36 fece un evento promozionale della Germania nazionalsocialista. Certamente imbarazzanti furono in quell'occasione le vittorie di Jesse Owens, l'atleta statunitense e per di più nero che guadagnò ben quattro medaglie d'oro.
Nel corso del Novecento, infatti, tanti sono gli aneddoti legati ai diversi regimi autoritari con cui è stata condita la storia sportiva. I catalani sostengono ancora ad esempio che Francisco Franco intervenisse in prima persona per favorire l'acquisto di calciatori per il Real Madrid a scapito del Barcellona, quando ormai lo spirito indipendentista della Catalogna si poteva esprimere solo allo stadio, da sempre agorà pubblica di riferimento delle masse.
E come dimenticare la protesta delle Madri di Plaza de Mayo ai mondiali di calcio di Buenos Aires nel '78 e i fatti di Monaco durante le Olimpiadi del '72? Come dimenticare lo scandalo provocato a livello mediatico dal rifiuto di Muhammad Ali? Il pugile si vide sottrarre il titolo di campione mondiale dei pesi massimi per renitenza alla leva e all’imposizione di combattere in Vietnam; lui, mito della nobile arte per la quale servono coraggio, forza e intelligenza, doti del perfetto soldato; lui, fieramente nero.
Come non ricordare anche il Sudafrica dell’apartheid e il rugby: il Commonwealth, nel 1972, emana l’accordo di Gleneagles, che vieta ogni tipo di contatto sportivo con la nazione dell’apartheid. Gli Springboks sono esclusi dalla prima Coppa del Mondo di rugby nel 1987, vinta dagli stessi All Blacks neozelandesi che anni prima si rifiutarono di partecipare ad un tour propria in Sud Africa (paese che alla fine ospiterà e vincerà il Mondiale del 1995 con Mandela Presidente).
Il simbolo di quanto lo sport sia politica, di come lo sport non possa essere qualcosa avulso da ciò che ci accade intorno, fu il pugno chiuso con il guanto nero sollevato nel 1968 alle Olimpiadi del Messico da Tommy Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d'oro e d'argento ai 200 metri. I due atleti afroamericani rivendicarono in mondovisione l'adesione al movimento delle Black Panthers, che lottavano per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, il paese in cui i trionfi sportivi erano (e sono) per lo più merito della gente afroamericano.
Su quel podio però, insieme a Smith e Carlos c’era anche Norman, “l’atleta bianco” che decise di solidarizzare con i due atleti, sistemandosi la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights sulla sinistra della tuta. Norman dopo questo gesto viene letteralmente cancellato in Australia, un paese non certo sensibile in tema di integrazione e lotta al razzismo. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200m e 5 quello per i 100m, ma non farà parte della spedizione di Monaco 1972. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d’achille, rischiando l'amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20"06 avrebbe vinto l'oro). Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos reggeranno la bara, il 9 ottobre seguente ai suoi funerali.
Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani.
A partire da queste premesse, ci chiediamo come lo sport - elemento culturale di aggregazione - possa provare a lenire alcune ferite e metastasi di questa società in fin di vita.
Può lo sport essere uno strumento d’integrazione capace di abbattere barriere razziali e xenofobe?
Può aiutare a comprendere che il problema non sono gli immigrati ma le ragioni politiche dell’immigrazione forzata, e quindi cosa determina i processi migratori, il continuo depauperamento di quello che ci ostiniamo a chiamare Terzo Mondo?
Lo sport deve aiutare a comprendere che al mondo ci sono solo due razze, chi sfrutta e chi è sfruttato?
La nostra ambizione è che lo sport rappresenti un volano di comprensione e elaborazione di un nuovo modello di vita sociale che fa delle diversità una delle ragioni della propria forza.
Roberto Consiglio