Solitamente, prima di fare una recensione di un libro o di una rivista, faccio un piccolo schema in cui da un lato metto i pregi, i punti di forza e dall'altro i punti deboli.
Ecco, in questo specifico caso mi è stato quasi impossibile riempire il secondo campo, perché il nuovo numero di "Uno-due", dedicato all'identità e alla sua costruzione nel calcio, non solo scorre via in maniera leggera lungo tutti i suoi diciannove articoli (grazie anche alla più che piacevole veste grafica che accompagna il lettore), ma soprattutto riesce a stabilire quel connubio tra calcio e cultura, compito a cui anche la stragrande maggioranza del giornalismo di settore ha abdicato preferendo rifugiarsi in partigianerie di comodo a metà strada tra "il tifoso" e "l'amico del procuratore di turno".
Invece "Identity", questo è il titolo del nuovo numero monografico della rivista fondata da Andrea Timpani, Matteo Cossu e Daniele Sigalot, mantenendo le premesse della monografia precedente, riesce ad adempiere in 120 pagine "più rigori" (in totale sono 256) a quella mission di elevare il calcio da quei luoghi comuni sulla sua inutilità sostanziale per farlo diventare un fattore culturale a pieno titolo, a tratti totalizzante, nei più disparati contesti geografici e sociali in cui si trasforma in un vero e proprio patrimonio collettivo.
Infatti, non è errato dire che il calcio viene utilizzato come lente d'ingrandimento per mettere sotto analisi il mondo attuale attraverso quei fenomeni cruciali che hanno modellato il volto della nostra epoca, dal post-colonialismo alle migrazioni, passando per i conflitti su base etnica che endemicamente riaffiorano nei focolari mai sopiti sparsi qua e là.
A partire dal pezzo di apertura sullo Shakthar Donetsk e in generale sul conflitto in Donbass e il conseguente trasloco forzato della squadra dei minatori, quello che colpisce è l'accuratezza dei pezzi, affidati il più delle volte e veri e propri esperti del settore, dove anche negli argomenti (purtroppo) divenuti di pubblico dominio, come nel caso specifico la guerra civile che sta attanagliando il territorio in questione, il calcio non costituisca un fatto a sé stante, ma si tratti invece di uno degli elementi necessari per ottenere una valutazione globale su fenomeni di ampio raggio.
Lo stesso discorso, d'altro canto e non poteva essere altrimenti, è valido anche per gli altri articoli, tutti meticolosi nella loro dettagliatezza, ma allo stesso tempo capaci di attirare l'attenzione sull'oggetto in questione, a prescindere che si tratti di argomenti "mainstream" come il Sankt Pauli o semi-sconosciute come il caso dello Jupiter, il club della zona industriale di Barcellona, Poble Nou, attivo in prima linea durante la guerra civile spagnola; così come è indifferente la vicinanza geografica o anche "l'affinità concettuale", poiché vengono sviscerati in maniera impeccabile tanto i "Pied-Noirs", il nome con cui vengono identificati i coloni francesi nati in Algeria (e nel caso specifico il parallelo e tra Albert Camus e Zidane), quanto il sentimento popolare del calcio a Bali; tanto la politica del soft-power cinese, quanto la storia della Liberi Nantes che i nostri lettori conosceranno bene.
Senza voler sconfinare nello spoiler, non possiamo che dare un giudizio estremamente positivo a questa rivista che potremmo definire di calcio-sociale che ha il physique du rôle del libro vero e proprio e che sicuramente può essere illuminante per tutta una generazione di amanti del calcio e di aspiranti giornalisti o scrittori che si ritrovano bombardati quotidianamente da una pletora di opinionisti improvvisati che nel migliore dei casi ha abusato in maniera un po' troppo "vampirica" del concetto di storytelling, mentre nella stragrande maggioranza dei casi hanno trasformato il calcio in poco più che gossip, sdoganando definitivamente quella triste aberrazione del "bomberismo" declinato ormai in tutti i rivoli della nostra passione comune, anche dove non ce ne sarebbe assolutamente bisogno e che ormai non azzeccano un intervento neanche a pagarli, e gli esempi qui si sprecherebbero.
Invece, forse il merito principale di questa splendida pubblicazione è che, come noi proviamo nel nostro piccolo a sostenere che "un altro calcio è possibile", i ragazzi di "Uno-due" hanno fatto tutto il loro meglio per sostenere che anche un altro modo di raccontare il calcio è possibile, dove si preferisce non mettere il pallone stesso al centro del ragionamento, per evitare di essere troppo autoreferenziali, e ancor meno quel gossip e quelle scene tristi a cui siamo abituati sulle tv e i giornali nostrani intrisi di sessismo, paternalismo e qualunquismo. Si può raccontare il calcio privilegiando l'antropologia, la storia e l'indagine sociologica. In definitiva, un acquisto che consigliamo vivamente a chiunque senta il bisogno di andare oltre il prodotto preconfezionato che l'industria televisiva e i padroni del vapore chiamano attualmente calcio.
Giuseppe Ranieri