Il Centro Storico Lebowski è senza dubbio una delle realtà più vive e attive del panorama dello sport popolare italiano, una di quelle che fungono anche da modello e ispirazione per chi continua a intraprendere percorsi di liberazione dello sport dalle logiche di profitto e di mercato. In un periodo in cui la squadra maschile sta lottando per i massimi obiettivi della propria storia, vicenda che vi racconteremo fra qualche settimana una volta arrivati alla conclusione, venerdì scorso abbiamo avuto la possibilità di discutere con l’ambiente grigionero di un altro tema importantissimo: il calcio femminile, le sue problematiche e le prospettive per un suo sviluppo che non sia schiacciato sulle medesime logiche di profitto, ma su un processo di crescita reale, diffusa e sociale. Nello spazio che è da sempre la casa delle iniziative targate Lebowski, il Centro Popolare Autogestito Fi-Sud, vari interventi hanno sviscerato gli aspetti critici del calcio femminile di oggi e le possibilità che si aprono con lo sviluppo di progetti autorganizzati.
Insieme a Elisa Virgili, ricercatrice e pugile nel circuito delle palestre popolari milanesi, si è tentato di dare un necessario inquadramento storico e sociale alla questione, che affonda le sue radici nella struttura patriarcale della società capitalista, e quindi nella gestione del lavoro, della cura domestica e del tempo libero, pensata da sempre a misura di maschio. In conseguenza di ciò, si stratificano anche le convinzioni e gli stereotipi su quali attività sia più opportuno e conveniente svolgere per un maschio e una femmina, fin dall’infanzia. Non che lo sport sia bandito per l’universo femminile, ci mancherebbe, ma ci sono dei sentieri predefiniti su cui si tenta di tenere l’attività sportiva, specie quella agonistica, mantenendo ben saldo un privilegio maschile su quelli che sono gli sport considerati più importanti, e in Italia il calcio è l’esempio perfetto. Se quindi nello sport in generale si registrano grandi disparità economiche e di copertura mediatica, anche ai livelli più alti, nel calcio (salvo eccezioni del tutto particolari come gli USA) questo meccanismo tocca gli apici più insopportabili. Le calciatrici, in Italia in modo particolarmente insistente, sono addirittura apertamente insultate e dileggiate, e non solo da qualche becero giornalista da talk show, ma dalle più alte cariche federali. Non bastano le condizioni materiali impossibili in cui lottano quotidianamente, si ritiene giusto aggiungere l’umiliazione. A fare da contraltare a questo, c’è una tendenza recentissima e che accelererà nei prossimi anni a incentivare molto l’attività calcistica femminile, con investimenti economici finora mai visti, non solo per la Serie A ma anche per le scuole calcio e l’aumento delle quote femminili nei settori tecnici. C’è l’arrivo delle “grandi”, la Juventus in primis, che iniettano soldi e prestigio ma impattano in modo malsano drogando il mercato e saccheggiando le squadre minori. C’è una Nazionale che è praticamente qualificata ai Mondiali, a differenza di qualcun altro. Insomma, su un mondo lasciato fino ad ora allo sbando più totale sembra si stia abbattendo la furia del calcio moderno, che se da un lato potrà portare soldi e visibilità, dall’altro non porterà certo istanze di cambiamento reale o di liberazione. In questo quadro, qual è l’importanza di una realtà autorganizzata?
Il Lebowski partecipa con vari interventi: il gruppo ultras degli Ultimi Rimasti, la squadra di calcio a 5 delle Mele Toste, la squadra di calcio a 11 femminile e la scuola calcio. Anche a dare l’idea della grande articolazione su cui si muove ormai l’attività della società. Gli ultras grigioneri per chi segue il nostro sito non hanno ormai bisogno di altre presentazioni. Le Mele Toste, prime promotrici del dibattito, sono l’anima originaria del calcio femminile grigionero e ormai lottano da vari anni nei campionati amatoriali di calcio a 5; molte di loro si danno anche da fare con le squadre dei bambini. Consce del fatto che i margini di miglioramento tecnici sono ancora molti (“noi perdiamo praticamente sempre”), hanno avuto il merito di voler porre all’ordine del giorno una discussione che le realtà che hanno una certa idea di sport e di mondo non possono eludere. Anzi, proprio in tempi in cui ci raccontano che l’unica speranza possibile per lo sport femminile sia l’arrivo dei miliardi e delle televisioni, è compito nostro dare una vera alternativa nei fatti.
Ma è l’intervento delle due giocatrici della squadra femminile di Serie D (ottima terza classificata alla sua prima stagione in grigionero) ad accendere la luce sulle assurde condizioni in cui versa il calcio femminile, e allo stesso tempo su quanto sia importante costruire la nostra alternativa. L’estate scorsa questo gruppo di calciatrici, insieme inizialmente al proprio allenatore, è approdato al Lebowski dopo aver rotto con la società in cui militavano. Per le più esperte, l’ennesima brutta storia di una carriera che è un monumento al coraggio e alla passione per il calcio, tra società che non ti fanno allenare perché gli conviene di più affittare il campo, o che alla fine di una stagione ti mandano via senza tanti complimenti. Di norma per giocare si paga, si cerca la società che ti chiede meno soldi per farti usare il suo nome per giocare il campionato. Dopo di che, spesso non si domandano nemmeno quanto hai fatto, come se fosse arrivato semplicemente il custode del calcetto a spegnere le luci e riscuotere i soldi. Questa è la situazione, in troppi casi: squadre di esuli, gruppi di giocatrici in cerca di un approdo per poter gareggiare. Quello che hanno trovato arrivando a Tavarnuzze, senza dilungarsi, lo sintetizzano le parole del capitano, che emozionano i tanti presenti: “noi finora abbiamo sempre giocato per noi stesse, per il nostro gruppo; adesso giochiamo per la maglia”. Parole riprese da uno striscione alzato la domenica dagli ultras al termine della vittoria da infarto della squadra maschile contro la Rondinella, e accompagnate da un “benvenute nella famiglia ragazze”. Ecco, all’iniziativa si è ripetuto spesso che ricette e soluzioni non se ne potevano ancora dare. Ma traspare l’impressione che si sia intrapreso un buon cammino.
Anche perché resta da accennare a un altro elemento fondamentale, quello che davvero nel lungo periodo può essere l’elemento di forza e di cambiamento dei progetti popolari: la scuola calcio. Cambiare radicalmente la mentalità con cui si pratica lo sport nell’infanzia, oltre a garantire l’accessibilità universale, è forse la sfida principale che si pone, e la questione di genere ne è un pilastro fondamentale. Liberare l’infanzia dai condizionamenti dell’agonismo esasperato e del patriarcato, valorizzare il gioco come momento di autodeterminazione, favorire la conoscenza del proprio corpo, sono cose che possono avere effetti importanti sulle future generazioni, non solo nell’ambito sportivo. Venendo al lato sportivo, abituare i bambini a praticare lo sport che preferiscono senza condizionamenti porta anche, nel tempo, a miglioramenti qualitativi. Facendo l’esempio del calcio, se le bambine non venissero sistematicamente scoraggiate dal praticarlo, negli anni la pratica si espanderebbe molto, sia nelle squadre che nella quotidianità dei parchetti, e quindi anche il livello tecnico e tattico medio si innalzerebbe rapidamente.
Staremo a vedere quindi gli sviluppi del calcio femminile italiano, le incognite sono ancora molte, bisogna vedere se funzionerà il “giochetto” di iniettare risorse e progettualità in un mondo su cui finora si è sistematicamente sputato. C’è poi la realtà che vive la maggioranza, quella delle serie minori, in cui la situazione mette i brividi, e in cui realtà come il Lebowski e tante altre possono essere non solo la spinta per un cambiamento “su noi stessi”, ma anche un modello per tanti e tante.
Matthias Moretti