Nonostante una strenua e forte opposizione da parte di associazioni e personalità di tutto il mondo (da Noam Chomsky a Moni Ovadia), che hanno lanciato una campagna capace di organizzare iniziative di protesta in tutta Italia e non solo (finanche un appello al Papa), alla fine è arrivato anche il giorno della partenza del 101° Giro d’Italia, uno dei più controversi, se non il più controverso, almeno nelle premesse.
Perché, è inutile girarci intorno, la scelta di fare partire la “Corsa Rosa” da Gerusalemme (Ovest) in concomitanza col settantesimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele, con buona pace degli organizzatori e delle loro dichiarazioni di facciata, ha un grosso portato sia simbolico che politico, tutt’altro che neutro, e anche la scusa di voler rendere omaggio a Gino Bartali (dichiarato “Giusto tra le nazioni” nel 2013 e appena insignito di cittadinanza onoraria israeliana) che durante la Guerra Mondiale salvò circa 800 ebrei risulta fallace, altrimenti sarebbe bastato che almeno una tappa di questa edizione della corsa transitasse dalla Toscana, terra natale del ciclista.
D’altronde, non è un caso se anche Netanyahu ha definito la corsa come “un evento fondamentale nei festeggiamenti del settantesimo anniversario della Fondazione dello Stato di Israele”; poiché quello che si sta sviluppando, come hanno sostenuto diversi osservatori è un caso di “sport washing”, ossia un utilizzo dello sport per costruire una nuova immagine di Israele ripulita dalle sue politiche segregazioniste, dalle continue violazioni delle disposizioni dell’ONU e dai programmi e proclami di pulizia etnica; il tutto ovviamente a suon di milioni.
Infatti, è proprio partendo dall’aspetto economico che bisogna muovere i primi passi per orientarci in questa controversa storia.
La scelta di far partire il “Giro d’Italia”, una delle tre principali corse a tappe patrocinate dall’UCI, la più bella secondo molti degli addetti ai lavori, è costata un totale di 17 milioni di euro, per quello che è il più grande investimento della storia dello stato israeliano per un evento sportivo. Di questi milioni, due sono stati dati al campione britannico Chris Froome per assicurarsi la sua presenza, e dodici sono stati versati direttamente nelle casse degli organizzatori, il gruppo RCS–sport (costola di RCS Mediagroup S.P.A e amministrato da Urbano Cairo, il presidente del Torino Calcio), per il quale una tale cifra rappresenta a tutti gli effetti ossigeno vitale viste le difficili condizioni del gruppo editoriale, oltre a potergli così mantenere quella vocazione ancillare che la Gazzetta dello Sport ha da sempre avuto coi potenti, sin dai tempi del regime fascista.
Con ogni probabilità è grazie a questi “convincenti argomenti” che si può spiegare la remissività degli organizzatori, con relativa marcia indietro di fronte alle vibranti proteste delle autorità israeliane, nella fattispecie i ministri (entrambi del Likud) del Turismo, Yariv Levin, e quella dello Sport e della cultura, Miri Regev (tra l’altro ex brigadiere-generale, ed ex portavoce dell’esercito e nota per le sue posizioni spiccatamente intransigenti), quando, verso la fine di novembre, nelle pubblicazioni ufficiali degli organizzatori e sulle mappe, per indicare la partenza della corsa compariva la scritta Gerusalemme Ovest (rendendo così implicita l’esistenza di una Gerusalemme Est, parte dei territori palestinesi e occupata illegalmente dalle forze militari israeliane), avevano minacciato di ritirare immediatamente i finanziamenti alla corsa se non fosse stata immediatamente tolta la dicitura “Ovest”, in quanto secondo loro esisterebbe una sola Gerusalemme. Gli organizzatori trovarono la poco credibile scusa di aver voluto segnalare soltanto la zona specifica da cui passava la corsa (un po’ come se, ad esempio, piuttosto di segnalare Roma o Milano in una tappa, si scrivesse Centocelle o Quarto Oggiaro!), trincerandosi dietro l’ormai vacua formula dello sport che non deve fare politica, salvo poi dover assicurare la presenza di due squadre sponsorizzate direttamente dal Bahrain e dagli Emirati Arabi Uniti, senza contare che almeno un’azienda di quelle che collaborano alla partenza del Giro d’Italia è attiva negli insediamenti illegali dei coloni israeliani.
Cedendo su tutta linea, gli organizzatori hanno di fatto anticipato anche Trump nel riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele.
Il principale artefice della prima partenza di una delle tre grandi corse ciclistiche al di fuori del continente europeo è il magnate canadese Sylvan Adams, Presidente onorario del Comitato Grande Partenza Israele, nonché realizzatore dell’unico velodromo olimpico nel Medio-Oriente, a Tel-Aviv. È anche il principale sponsor insieme al governo israeliano della ICA, Israel Cycling Academy, la squadra ciclistica di Israele che parteciperà per la prima volta al Giro d’Italia, guarda caso, grazie a una delle quattro “wild-cards” date dagli organizzatori (a discapito, ad esempio, anche della Nippo-Vini Fantini di Damiano Cunego, vincitore nel 2004 e alla sua ultima stagione agonistica) e che, giusto per non farsi mancare nulla, proprio in questi giorni ha partecipato a una corsa, il GFNY Jerusalem, che passava da Gerusalemme Est e dalla colonia illegale di Pisgat Zee’v, rivestendo fino in fondo il ruolo di “ambasciatore sportivo di Israele” conferitogli dal Ministero del turismo. Anche in questo caso, a nulla sono valse le proteste e gli appelli congiunti all’UCI.
Nelle intenzioni di Adams, così come in quelle del comitato, l’idea è quella di far diventare questa partenza un grande spot turistico per Israele, mostrando a circa 100 milioni di telespettatori da tutto il mondo un altro volto del paese, il “Normal Israel”, un paese bello da visitare, normalizzato, cosmopolita, libero e pluralista, abbastanza distante dalla realtà o comunque da quella che è invece la realtà nella “Normal Palestine” e di cui abbiamo notizie sempre più tragiche giorno dopo giorno.
Di fatto la partenza della gara da Israele sarà un’arma in più per tutte le pretese del governo israeliano sui territori contesi e non riconosciuti, basti vedere lo stesso percorso, che ha visto i progettisti molto meticolosi nel tenere la corsa entro i confini riconosciuti, a livello internazionale, cioè quelli del 1948, restando alla larga dalla Cisgiordania, da Gaza e dalla Città vecchia di Gerusalemme, quasi a voler nascondere i checkpoint, gli insediamenti dei coloni e il muro, insomma quella che è la drammatica quotidianità in quelle terre di cui è proprio Israele il responsabile. Proprio per continuare quell’operazione di sport washing anche sui media nostrani i siti e i monumenti vengono chiamati solo coi loro nomi ebraici e non con quelli arabi (come ad esempio la Porta di Jaffa, chiamata solamente Torre di Davide), quasi come se la popolazione palestinese non fosse altro che un ornamento caratteristico del paesaggio da tenere nascosto perché un po’ fastidioso alla vista… e magari alla coscienza.
Infatti, la prima tappa, in programma venerdì 4 maggio, sarà una crono-prologo di circa 10km che si svilupperà su un circuito cittadino di Gerusalemme (Ovest!), la seconda da Haifa a Tel Aviv (167 km) e la terza da Be’er Sheva a Eilat (226km), che porterà la corsa lungo il deserto del Negev dove vi sono dozzine di città e villaggi palestinesi (che ovviamente verranno occultate agli occhi degli spettatori), abitati da beduini a cui è stata tolta anche la cittadinanza, che sono stati distrutti arbitrariamente dalle truppe israeliane decine e decine di volte, fino al caso record di Al Araqib distrutto e ricostruito ben centoventi volte!
In ogni caso, per come la si voglia vedere, è quantomeno paradossale sentire dire dalle autorità israeliane che lo sport deve creare ponti, se poi le stesse autorità israeliane si distinguono nel bombardare gli stadi e gli impianti sportivi palestinesi e per negare la possibilità di movimento lungo il territori agli stessi atleti palestinesi, così com’è grottesco leggere dichiarazioni del seguente calibro: “Superare barriere e divisioni attraverso il linguaggio comune dello sport, in questo caso il ciclismo, disciplina che come poche altre sa aggregare e unire le persone”; un intento nobile, certo, se non fosse che in quella zona una barriera c’è e dal 2002, è lunga 730 km e alta 8 metri e l’ha edificata proprio lo stato d’Israele.
D’altro canto se un recente sondaggio della BBC mostra Israele come il quarto paese meno popolare del mondo un motivo ci sarà e ci vorrà molto più di tre tappe del Giro d’Italia per togliere questa percezione alla gente.
È vero, ormai la Corsa Rosa sta per cominciare proprio in concomitanza col penultimo venerdì della Marcia del Ritorno e a pochi giorni dalla Nakbah, ma ciò non vuol dire che termineranno le iniziative di sensibilizzazione sulla vicenda per sostenere la causa del popolo palestinese e per riaffermare che non sarà certo lo sport a dare quella legittimità che Israele prova a comprare, anzi dall’arrivo della carovana rosa in Italia, ogni giorno sarà un’occasione valida per dimostrare la nostra solidarietà attiva a chi ancora resiste contro l’imperialismo e le sopraffazioni impunite di Israele, e che la nostra idea di sport inclusivo è totalmente diversa da questa foraggiata dai milioni e cresciuta sulle bugie e le omissioni!
Giuseppe Ranieri