Il triplice fischio finale dell’arbitro svedese, il signor Erik Friedriksson, sancisce la fine della partita. Oltre 120 minuti di gioco, fra tempi regolamentari e supplementari, non sono bastati per decretare la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni.
È il 30 Maggio 1984, le statistiche ufficiali parlano di circa 70.000 persone che gremiscono gli spalti dello Stadio Olimpico di Roma. La realtà è che in quello stadio le persone sono molte di più, la capienza massima è superata ampiamente, le tribune e le curve sono stipate oltre l’inverosimile. La città è ferma, come ipnotizzata, dal 25 aprile di quello stesso anno quando la Roma, battendo 3 a 0 il Dundee Utd e ribaltando così lo 0-2 dell’andata, ottiene il “pass” per giocare la finale della Coppa più importante al livello di club, per di più nel suo stadio.
Ma se 120 minuti non sono bastati per decretare la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni, i rigori saranno l’inevitabile epilogo di una storia che già così avrebbe dell’epico e del crudele insieme.
I rigori, probabilmente, sono la massima espressione della crudezza del calcio. Quella sera non c’è eccezione a questa regola: al fischio finale è tutto un vociare di “non me la sento”, “ho i crampi”. Anche i più grandi campioni, i fuoriclasse assoluti di quello sport, quel pallone che solitamente è così leggero e familiare lo sentono come un masso troppo pesante da calciare, come un nemico che ti ha vinto e che non vuoi sfidare oltre.
Ma la Roma sa che la sua storia è costellata di ragazzi e uomini che tra le vie dei quartieri popolari di questa città hanno mosso i primi calci, hanno sbattuto quel pallone contro le serrande del droghiere talmente tante volte sognando quel momento che quando poi arriva non puoi non essere lì a prenderlo.
L’amore che lega i romani alla Roma è viscerale e lo diventa ancora di più quando della squadra del loro cuore ne diventano capitani, bandiera e orgoglio. È un amore fatto di lotta, di poche e sofferte vittorie che però riempiono il cuore tanto da farti dire che “ne vale la pena”, che è giusto rinunciare a carriere ben più dorate e ben più ricche nel palmares e nel portafogli per conquistare lì, dove hai sempre sognato e forse anche solo per una volta, un pezzo di paradiso.
E i romanisti sanno che da quegli undici metri c’è chi sbaglierà e chi gli volterà le spalle non calciando quel rigore. Ma soprattutto sanno di chi fidarsi: di quel numero 10, del Capitano, nato nella città eterna e cresciuto nelle vie del quartiere popolare di Tor Marancia. Lui lo tirerà e non lo sbaglierà.
È il 22 maggio del 1973, durante un Inter – Roma fa il suo esordio un ragazzo che da poco ha compiuto diciotto anni. Gli addetti ai lavori ne parlano benissimo: ha classe, potenza, visione di gioco straordinaria, un tiro da fuori letale. Difetta nella corsa, non è certamente un velocista e questo potrebbe essere un problema in un mondo del calcio che con la rivoluzione del calcio totale di Crujiff iniziava a virare verso prestazioni atletiche sempre più elevate. Ma compensava questa mancanza con un’intelligenza, calcistica e non, assolutamente fuori dal comune.
Bisognerà aspettare qualche anno in cui il ragazzo di Tor Marancia si farà le ossa, fra prima squadra giovanili e un anno in provincia, per vedere finalmente stampato nella testa di tutti il suo nome: Agostino Di Bartolomei. Dal 1976 è in pianta stabile negli undici titolari della Roma. Poco dopo ne diventerà Il Capitano. Con Liedholm la maturazione calcistica è definitiva. Diventa Il Capitano della sfida della Roma al potere Juventino, degli Agnelli. C’era nel giorno del famoso goal di Turone, capostipite di tutte le ruberie bianconere, e subisce la prima e unica espulsione della sua carriera giallorossa proprio contro la Juventus in una partita in cui segnerà anche il goal vittoria. Lui è romano e romanista ma la Roma vincere non l’ha mai vista. La “Rometta” diventerà grande assieme a lui. Nell’83 è straordinario protagonista della cavalcata scudetto, sempre con la numero Dieci e quella fascia di Capitano sul braccio sinistro.
Era un calcio estremamente diverso quello, un calcio che viveva di reali passioni popolari, al cui interno vi erano anche profonde divisioni ideologiche che riflettevano il conflitto sociale che scuoteva la quotidianità dell’Italia e in generale del mondo. A leggere i libri dei calciatori dell’epoca si scopre come erano frequenti le liti di carattere politico negli spogliatoi, che molti giocatori giravano armati sia per emulare i gangster della malavita sia perché si erano personalmente esposti a livello politico. A inizio anni ‘80, in Brasile, il Corinthians sperimentò addirittura elementi di comunismo all’interno dello spogliatoio e della gestione di una squadra di calcio di livello professionistico partendo proprio dai suoi calciatori.
In questo contesto Agostino non rappresentava certo un “porto” neutrale. Non è mai stati zitto ma al tempo stesso non ha mai dovuto dire una parola di troppo, i suoi erano concetti chiari, schietti. In lui si vedeva quell’intelligenza malinconica, quel sarcasmo triste tipico dei romani. Quando dice “è il lavoro più bello del mondo perché si lavora divertendosi”, sta affermando che lui sa di essere un “privilegiato”, che ha fatto della sua passione una professione, del suo amore un lavoro.
E quel 30 maggio 1984 Agostino non ci tradì. Il Liverpool sbaglia il primo, il suo rigore diventa ancora più importante. Ma quel pallone, per lui, è un calcio a tutte le ingiustizie. Non pesa, non fa paura. È il giusto coronamento di un amore viscerale. E lo scaglia con forza e precisione al centro della porta.
Il resto è storia, lo sappiamo. Le mosse di Grobbelaar e gli errori di Conti e Graziani regalano la Coppa dei Campioni al Liverpool. È l’inizio della fine della grande Roma. Due anni dopo, nel 1986, in quel Roma - Lecce, si sancisce l’inizio del torpore che durerà, salvo piccoli e veloci risvegli, fino al 2001 quando nuovamente un ragazzo di Roma, romano e romanista, con la numero 10 sulle spalle porterà i colori giallorossi sul tetto d’Italia.
È anche la fine di una storia d’amore, quel 30 maggio 1984. Non sarà l’ultima partita in giallorosso e prima di dirsi addio ci sarà ancora la possibilità nel giugno di quell’anno di alzare un trofeo, la Coppa Italia, magra consolazione per quello che poteva essere.
È la fine della storia d’amore fra la Roma e Agostino Di Bartolomei. Non quella del Capitano con i romanisti, ma con quella società Roma che lo scaricò così velocemente. “Ti hanno tolto la Roma ma non i Romanisti”, recitava uno striscione durante la finale di Coppa Italia. L’amore con i romanisti, con la città di Roma, subì solamente una brusco colpo l’anno dopo, quando Ago segnò due goal proprio contro la sua Roma, ed esultò. E come ogni storia d’amore che finisce male, da un lato c’è la vendetta di un amante ferito e dall’altra il rimorso e la delusione per la vendetta subita. Ma quell’esultanza non era contro la Roma, lo capimmo anni dopo. Né tantomeno contro il suo popolo: “esistono i tifosi di calcio e poi esistono i tifosi della Roma”, come amava dire lui d’altronde, ma contro quella società che lo aveva mandato via in fretta, che aveva deciso di interrompere quella straordinaria storia d’amore così bruscamente ritenendo uno dei simboli di Roma uno “scarto”. Dopo la Roma, piano piano, toccò al mondo del calcio dimenticarsi di Agostino Di Bartolomei.
30 Maggio 1994, dieci anni dopo la tua più grande delusione d’amore: “mi sento chiuso in un buco”.
Ciao Ago, capitano eterno.
Nicola “Pol Pot” Cuillo