Difficile dire se sia stato il più bel Mondiale di sempre, come pure hanno dichiarato fino allo sfinimento i cronisti Mediaset, ma sicuramente Russia 2018 è stato un torneo avvincente e lo ricorderemo a lungo, sia per motivi tecnico-sportivi che di contesto. Paradossalmente proprio l'assenza dell'Italia (oltre alla trasmissione in chiaro di tutte le partite) ha consentito agli appassionati quell'imparzialità, altrimenti impossibile, per analizzare lucidamente la competizione e interpretare quello che ci ha detto. Sul campo sono crollate tante certezze che sembravano granitiche fino a poche settimane fa: alla fine ha trionfato una squadra che nonostante individualità eccezionali fa del gruppo il proprio punto di forza, hanno steccato buona parte delle stelle, qualcuna è stata ridimensionata ai limiti della derisione personale, mentre da altre ci si attendeva molto di più. Il tiki-taka ha esaurito la sua spinta innovatrice e spesso è degradato al rango di possesso sterile che prestava il fianco ai repentini capovolgimenti di fronte, quei contropiedi tanto bistrattati negli ultimi tempi. Il campo ha premiato chi verticalizzava, con effetti positivi anche sulla spettacolarità di molte partite, se pensiamo ai due ultimi Mondiali, quelli del tiki-taka trionfante e della noia quasi totalizzante, c’è da tirare un sospiro di sollievo.
Nonostante si sia dato ampio spazio alla precoce eliminazione di tutte le squadre africane durante il primo turno (alcune come l’Egitto da annoverare tra le vere e proprie delusioni del Mondiale, altre come il Senegal punite dalla sfortuna e da regolamenti cervellotici, oltre che da un’ingenuità ben oltre i limiti dell’autolesionismo, mentre le altre hanno semplicemente trovato avversari troppo forti nei loro gironi) continua quel processo che vede la graduale estinzione delle cosiddette squadre-materasso, che verrà comunque messa a dura prova dall’allargamento del mondiale a 48 squadre: a parte due/tre partite, non ci sono state goleade o partite eccessivamente squilibrate, spesso e volentieri gli allenatori delle squadre sfavorite riuscivano a imbrigliare tatticamente i loro avversari, il che non vuol dire necessariamente che tutto il livello del calcio sia migliorato (anzi forse il contrario…), ma sicuramente che ci sia stato un livellamento interessante nel contesto delle competizioni tra squadre nazionali. Se si effettua un raffronto con la Champion’s League, soprattutto nella fase a gironi (ma visti i tabellini, ci si potrebbe spingere anche oltre…), in cui i risultati sono di ben altro tenore e le partite senza storia aumentano di anno in anno, non può non venire in mente che a un maggior livellamento dei valori per quello che concerne le nazionali, fa da contraltare lo squilibrio galoppante dei club, dovuto alle differenti risorse economiche di cui questi dispongono e che consentono e quella ristretta schiera di club di spendere cifre folli sul mercato e fare così incetta di campioni (affermati o in divenire) da ogni parte del mondo.
A riprova di ciò, delle quattro semifinaliste, almeno due di esse non hanno dei campionati altamente competitivi, ci riferiamo sia al Belgio, che comunque può contare su un’organizzazione a partire dal calcio giovanile se non d’avanguardia comunque di spessore, ma soprattutto alla Croazia alle prese con mille problemi di natura economica, organizzativa e non solo. Basti seguire le vicende di Zdravko Mamic, l’eminenza grigia del calcio croato, nonché padre-padrone della Dinamo Zagabria (di cui ci siamo già occupati negli anni passati), arrestato in Bosnia dopo una breve latitanza a seguito della condanna definitiva a sei anni e mezzo che gli era stata inflitta. Ma del resto, l’ultima Italia campione l’abbiamo vista nell’estate di Calciopoli. Perché le generazioni di talenti se devono crescere crescono, anche nel contesto più marcio.
In ogni caso, questo Mondiale porterà con sé diverse storie commoventi, come d’altronde impone il canovaccio: da quella di Tabarez che ha convissuto con la malattia con dignità e disinvoltura allo stesso tempo, passando per Beiranvard il portiere iraniano sfuggito al destino di pastore tra le montagne contro il volere del padre e che si ritrova a parare un rigore a sua maestà Cristiano Ronaldo, e molte altre ancora. Ricorderemo anche il disappunto ufficiale quanto formale della FIFA per quella coltre sempre meno velata di sessismo, per via delle eccessive attenzioni alle tifose e alle giornaliste, quasi come se si trattasse della “Settimana della Moda” più che del Mondiale, ma soprattutto una polarizzazione del discorso politico-identitario che inevitabilmente risente del clima arroventato dei nostri tempi e che ha trovato ogni pretesto per esondare.
Di episodi ce ne sono stati diversi, a partire dall’aquila a due teste di Xhaka e Shaqiri dopo i gol contro la Serbia, con annesso fastidio non solo di Belgrado, ma soprattutto degli stessi sportivi svizzeri, fino al multiculturalismo a “porte scorrevoli” che ha unito due facce della stessa medaglia, la Germania (ormai ex) campione del mondo, che giusto quattro anni fa esaltava i vari Ozil, Khedira ecc… e oggi vede almeno il primo sul banco degli imputati insieme a Gundoghan per il flop teutonico (su ciò influisce anche l’infelice scelta dell’incontro ossequioso tenuto con Erdogan) come panacea di tutti i mali (mentre più di uno spiffero dello spogliatoio parlerebbe di crepe dovute maggiormente a questioni di club e generazionali come causa della mancata unità della squadra tedesca).
L’esatto contrario dei transalpini che a Mondiali alterni decidono se il multiculturalismo applicato al calcio sia un valore o un problema in grado di minare l’unità della squadra, basterebbe seguire anche l’evoluzione delle posizioni della famiglia Le Pen di Mondiale in Mondiale per vedere quanto i discorsi politici (figurarsi quelli tattici!) si possano immolare sull’altare dei risultati.
La verità è che in Russia il calcio è sembrato un po’ come l’oroscopo, di cui di fronte a messaggi poco chiari, ognuno riesce a dare una propria interpretazione che, per forza di cose, sarà più giusta di quella degli altri.
Una dimostrazione si è avuta in questo straziante dibattito su chi tifare in finale, che a dir la verità ha interessato più che altro noi italiani, confinati al ruolo di spettatori e gufi dal giorno dell’inaugurazione, che grazie ai nostri giornalisti sportivi riuscivamo a vedere “un po’ d’Italia” in qualsiasi cosa, dimenticando che non bisogna essere necessariamente tifosi quando non gioca la propria squadra. Il tutto potrebbe essere declinato dal punto di vista politico nelle diatribe tra Salvini e Saviano, per dire come stiamo messi dalle nostre parti a livello di dibattito.
A rinfocolare la polemica, infatti, l’accusa di saccheggio da parte dei vecchi paesi coloniali e di “globalizzazione del calcio”, un’accusa trasversale che raccoglieva nello stesso novero da Bargiggia a Maradona.
Volendo dividere le due questioni, probabilmente sulla questione globalizzazione del calcio siamo d’accordo, ma intesa in un modo abbastanza diverso e sfaccettato: da un lato, è vero, c’è il peregrinare per il mondo di tanti ragazzini con più o meno talento, che potrebbe essere chiamato saccheggio, ma dall’altro c’è anche la libera circolazione di idee e schemi tattici, d’altronde mai avevamo visto un Brasile così “europeo” come gioco, o una Croazia così forte, certo, ma veramente poco balcanica nelle proprie prerogative tecnico-tattiche, salvo per pochi elementi.
E invece, nel nostro paese abbiamo fatto quello che ci riesce meglio negli ultimi tempi, vale a dire buttarla in caciara accusando o difendendo aprioristicamente per partito preso l’una o l’altra squadra, dietro le quali si celavano visioni semplificate della vita. Poco importa che buona parte dei calciatori francesi fossero immigrati di seconda o terza generazione, ma comunque nati in Francia e discendenti delle ex colonie (che poi proprio “ex” non sono, ma questo è un altro discorso…), e che a volerla dire tutta, in Russia erano più i calciatori nati in Francia che hanno deciso, ad esempio, di naturalizzarsi senegalesi per giocare con la nazionale africana che il contrario. Oppure il fatto che diversi giocatori della nazionale croata siano nati nella Jugoslavia socialista e che, nonostante i trattati antropologici di giornalisti di ogni risma (da Cazzullo a Bargiggia), ci siano più problemi per un croato con discendenza serba che per un franco-senegalese, ma tant’è, ormai la macchina del giudizio politico era partita ed era inarrestabile.
A nostra memora, mai ci ricordiamo di un simile accanimento o di una tale portata del dibattito per una finale a cui noi non abbiamo partecipato, segno dei tempi che stiamo vivendo e segnale del fatto che soprattutto d’ora in poi il calcio e lo sport in generale saranno sempre più arena di confronto e di scontro anche per quel che riguarda i grandi temi della politica, e noi ci ritroveremo davvero a subire “invasioni”, da parte di chi proverà subdolamente a strumentalizzare ogni vicenda per portare ulteriormente acqua al proprio mulino. Non abbiamo avuto il Mondiale, ma abbiamo deciso di viverci ugualmente le sue polemiche anche se non ne avevamo bisogno, e non sentivamo certo la mancanza di tuttologi e complottisti, che non potremo fare a meno di avere sempre più frequentemente tra le scatole in futuro. Tuttavia possiamo essere in grado di respingerli non solo dal punto di vista dialettico, ma anche grazie a quelle pratiche che coltiviamo quotidianamente. Opporre al deserto quasi totale della narrazione sportiva italiana un pensiero critico e indipendente. Sia sul piano tecnico-tattico, praticamente abbandonato in favore del gossip sguaiato, tranne per chi può permettersi l’abbonamento a Sky, sia su quello dell’analisi storica, sociale e politica, della quale viene continuamente fatto scempio ma che deve essere sempre un campo di battaglia da non abbandonare.
La redazione