Per chi ha intorno ai 30 anni o poco più, i Balcani rappresentano una terra piena di fascino e inquietudine, così vicina geograficamente ma così lontana, per quelli che erano i nostri occhi di bambini nei primi anni ’90, per via delle terribili immagini di guerra che per anni continuavano ad arrivare con cadenza quotidiana. Per chi poi è particolarmente appassionato di storia e politica, queste regioni rappresentano delle autentiche miniere d’oro: millenni di conquiste, invasioni e guerre, ma anche di sviluppo costante delle popolazioni autoctone, hanno generato un mix di lingue, culture, religioni, forme politiche che ha pochi eguali al mondo. Stringendo lo sguardo sui paesi dell’ex Yugoslavia, l’impressione che rimane, circondata da un alone di malinconia, è che l’unico modo per valorizzare questo complicatissimo mix e farlo non solo sopravvivere, ma diventare modello positivo, fosse la Federazione di stampo socialista che per circa un quarantennio ha garantito pace, giustizia sociale e un certo benessere. Questa esperienza è stata poi distrutta e annegata nel sangue, per far prevalere interessi nazionali particolaristici, alle dirette dipendenze degli interessi delle grandi potenze europee e degli USA. Poco prima delle guerre yugoslave, nel resto dell’Est Europa erano crollati i governi comunisti, inaugurando una stagione di democrazia formale e di capitalismo di mercato che ancora adesso continua a mostrare mille crepe e ad approfondire le disuguaglianze.
In un quadro sociale e storico così complesso e ricco di fascino, lo sport e il calcio in particolare non possono che assumere tinte ancor più ammalianti di quelle che hanno di solito. Innanzitutto, nell’Europa dell’Est la cultura sportiva e calcistica è enorme e diffusissima, anche grazie agli sforzi sempre fatti dai governanti socialisti nel garantire l’accesso allo sport a tutti. Nel calcio, è sempre stata la Yugoslavia la regina dell’Est, e continua ad esserlo ora che è smembrata: chiedere alla Croazia, ma anche alla stessa Serbia, paesi abitati da pochi milioni di persone che raggiungono con le rispettive nazionali i traguardi che sappiamo, non solo nel calcio ma anche nel basket, nella pallavolo, nella pallamano e la pallanuoto, oltre che in alcuni sport individuali. Di conseguenza è naturale che l’impatto sociale dello sport sia importante, e si va ad innestare proprio su quella storia così intrecciata e stratificata cui si faceva cenno poc’anzi.
E qui arriva Curva Est (Urbone Publishing, 2018), in cui Gianni Galleri ci fa partecipare ai suoi viaggi nei Balcani, e fa avvicinare il lettore a questa realtà caleidoscopica nell’unico modo possibile se ci si vuole mantenere nei canoni di un libro agile di 200 pagine, ovvero con una sorta di diario di viaggio. Affrontare le questioni attraversate da Galleri in modo “scientifico” richiederebbe la stesura di veri e propri trattati, di sport da un lato e di storia sociale e politica dall’altro. Cose da specialisti, difficili da rendere fruibili a un pubblico lontano dall’accademia. Curva Est invece è proprio il libro che serve per farti venire voglia di conoscere a fondo tutti quei paesi, di andarci di persona, di respirarne l’aria e ammirarne i paesaggi naturali e umani. E, più di ogni altra cosa, di andare allo stadio, di approfondire la storia di club magari ora decaduti, di vedere un derby tanto infuocato sugli spalti quanto scarso a livello tecnico, visto che smembrare un grande paese in tanti pezzetti vuol dire creare tanti campionati di basso livello.
È facile immedesimarsi in questo racconto impressionista e soggettivo, come un racconto di viaggio è per forza di cose: una città può piacere di più o di meno a seconda che piova, o che il sole la illumini in un modo particolare; o a seconda di quanto eri stanco quel giorno; una squadra può starti più o meno simpatica per mille motivi, i colori sociali, la sua storia, un’impresa particolare, l’attitudine politica, o anche solo per quanto ti hanno fatto sbronzare i suoi tifosi quando sei andato a trovarli. Chi ama viaggiare e non fare semplice turismo non faticherà a capirlo. Non c’è niente di scientifico, e così dev’essere. Se si vuole avere quell’approccio, sono altre le letture necessarie, le cose sono complementari. Quello di Galleri è più un volo a planare su Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia, Bulgaria, Romania, Grecia e Cipro. In questo volo lo sguardo si sofferma su molte vicende: fa affacciare il lettore sullo stadio Maksimir di Zagabria scosso dai venti di guerra; sui derby di Belgrado, e sulla Stella Rossa che, unica tra i balcanici, vince una Coppa dei Campioni; sul ponte di Mostar e il triste destino della squadra multietnica del Velez; sulla Macedonia e il mito di Darko Pancev. E ancora sui derby di Sofia, e sulle mutazioni avvenute nella Romania e nella Bulgaria post-comuniste con la caduta in disgrazia di molte squadre e l’avvento di nuove realtà guidate dai nuovi miliardari; sulla Grecia delle grandi rivalità e di un sistema in crisi come non mai; su una Cipro che con la sua storia di pulizia etnica e muri a dividere ricorda tanto proprio l’ex Yugoslavia. Tante le storie raccontate, tante quelle accennate, e tantissime quelle ancora da esplorare, sia per un autore che non sembra certo volersi fermare, che per noi tutti. Non c’è nessuna compiutezza in questo libro, nessuno glielo chiedeva. Al contrario, è probabile che molti dei lettori (il sottoscritto di sicuro) si siano ritrovati a scorrere il tabellone dei preliminari di Champions ed Europa League per vedere quali sfide affascinanti attendevano le squadre incontrate nel libro, o addirittura per capire se in una breve vacanza si riesce a beccarne una dal vivo, o addirittura uno scontro diretto in cui dover capire la storia della rivalità, e magari per chi parteggiare. Se ho capito il senso, l’obiettivo del libro di Gianni era sostanzialmente questo, e ci è riuscito bene.
Matthias Moretti