Un nuovo spauracchio si aggira all’interno degli stadi italiani in questa vigilia di nuova stagione. L’ultima trovata, per quanto non molto “a sorpresa”, del sistema-calcio italiano nell’ottica di normalizzare definitivamente la figura del tifoso, a uso e consumo del meccanismo di profitto economico e dell’onnipotenza delle società e dei presidenti in particolare. L’istituzione dei “codici di gradimento” o “codici etici”, obbligatori per ogni società professionistica, era la conseguenza prevedibile del percorso di abolizione della Tessera del tifoso iniziato la stagione scorsa. Illudersi che non ci sarebbero stati nuovi provvedimenti sarebbe stato davvero sciocco. Senza dubbio alcuni effetti positivi ci sono stati: tutti hanno ricominciato a viaggiare in trasferta, sono tornati i tamburi. Questo non per bontà della controparte, ma solo perché hanno registrato un sonoro fallimento, con gli stadi svuotati proprio di quelle “famigliole” che tanto dicevano di voler fidelizzare. E quindi adesso si inaugura una stagione diversa, sempre all’insegna del tentativo di fare del tifoso un cliente da supermercato e di non permettergli alcuna autonomia di pensiero e di azione individuale o collettiva.
La direzione che si prende è quindi quella di delegare una parte dei poteri di controllo e repressione dell’attività delle tifoserie direttamente alle società. Ognuna di esse avrà il proprio codice, che però stando ai primi esempi usciti sembra essere poco più di un reciproco copia-incolla. In questo modo si affianca al lavoro del Ministero dell’Interno, di Questure e Prefetture, e degli osservatori nazionali, un contributo fondamentale “di prossimità”, quello della società stessa. Al momento quindi sono due soggetti repressivi che sommano il proprio lavoro, dalla padella alla brace verrebbe da dire. Sarà però interessante osservare se e come, negli anni, questo affiancamento diventerà piuttosto una sostituzione, fatte salve le questioni che attengono al codice penale, dove ci sarà sempre poco da fare. Difficilmente diventerà mai legale una rissa nel piazzale di uno stadio, ma questo uno lo sa e agisce come meglio crede. In questo quadro che appare del tutto negativo, è però un dovere di tutti quelli che amano vivere lo stadio individuare non dico dei lati positivi, ma degli elementi su cui poter puntare per condurre delle piccole o grandi battaglie, per fare in modo che dagli anni bui della Tessera non si piombi in un periodo ancora peggiore. D’altra parte spesso nella vita è necessario combattere per ciò che si ama, e lamentarsi non serve.
Dicevamo che se negli anni prenderà corpo una sostituzione tra lo Stato e le società nel disciplinare e punire i comportamenti dei tifosi, sicuramente ci sarà un insidioso elemento di prossimità, di perfetta conoscenza, e di selezione mirata dei tifosi, specie da parte di quei presidenti particolarmente innamorati del proprio ego. In generale però emerge un punto importante: allo Stato non interessa nulla della tua squadra. Se è stato scritto che il tale striscione, il fumogeno, il coro, comportano la diffida, si diffida. Una società di calcio è invece strettamente dipendente dai suoi tifosi, ha un rapporto con l’entità collettiva che non è lontanamente paragonabile a quello di una Questura. Una squadra senza tifosi non ha senso di esistere, non fa neanche i soldi. Al momento, quella di colpire le parti più accese e militanti della propria tifoseria per privilegiare il pubblico ammaestrato è una scommessa molto rischiosa per quasi tutti. Perché il pubblico ammaestrato se fa freddo sta a casa, se la squadra va male sta a casa, in trasferta non ci va. E ti lascia lo stadio vuoto e freddo, che fa schifo anche a vederlo in tv. Il senso di tutto questo discorso è che potrebbe esserci più spazio per agire sui rapporti di forza.
Chiaro che ogni realtà fa storia a sé. Ad esempio la vedo buia per le grandi piazze, in cui si uniscono l’onnipotenza di presidenti ricchissimi e la connivenza di molti personaggi del tifo. Non mi stupirei che in alcuni stadi, senza fare nomi, a far rispettare i codici etici fossero proprio dei ras delle curve. In molte altre piazze italiane però la dimensione più ridotta dell’ambiente, il legame viscerale tra squadra e orgoglio cittadino, l’effettiva potenza di alcune tifoserie che raccolgono l’intera città o quasi, possono portare a effetti diversi. Se c’è voglia di impegnarsi, di costruire nella quotidianità un terreno favorevole rispetto al viversi lo stadio in un certo modo, se tra ultras e cittadinanza non c’è un rapporto di esclusione ma si è parte attiva della vita quotidiana, anche il peggior presidente avrà delle belle gatte da pelare. Se diffidano tre ultras per una pezza contro il presidente, alla partita dopo che sia uno striscione di 40 metri che prende tutta la curva a ribadire lo stesso messaggio, e via dicendo. Una Questura se ne fotte, è naturale. Un presidente forse un pensierino deve iniziare a farlo. È chiaro che questo discorso presuppone che ci sia la voglia di mettersi in gioco, di dare battaglia “culturale” nelle proprie città, di mettere in conto conseguenze come diffide o giornate in cui magari si diserta per protesta. Ma d’altra parte, se non c’è la minima voglia di fare qualcosa a riguardo, vuol dire che alla fine ormai ci si fa andare bene tutto. Sarebbe bello invece vedere in ogni città assemblee tra i gruppi e tutta la tifoseria in cui si parla di come non farsi ingabbiare, di come tutelare collettivamente la vita all’interno dello stadio, di come costruire rapporti di forza.
E poi c’è il calcio popolare, anche se ovviamente non è interessato in modo diretto da un provvedimento che riguarda il calcio professionistico. Ma l’introduzione dei codici etici dimostra in modo davvero lampante quanto l’opposizione al calcio mainstream assuma, per forza di cose, un carattere totale e irriducibile. Da un lato il calcio dei padroni, che ti impone i suoi mille stupidi codici. Rifiutare questo modello invece vuol dire autodeterminarsi in tutto e per tutto. Vuol dire che in questo caso tu semplicemente rispondi: “devono essere le società a reprimere? Benissimo, la società siamo noi, e qui il tifo si può fare liberamente”. Sarebbe bello vedere un giorno l’impatto di una realtà autogestita, fosse anche una squadra professionistica che intraprende questa strada, nello stupido e stereotipato dibattito pubblico italiano su stadi e tifo. Probabilmente abbiamo molto da dire.
Se il potere passa dalle Questure al padrone, questo in sé non è né un bene né un male. O meglio, sono due mali. Ma forse, per chi ha voglia di combattere per ciò che ama si apre qualche, stretto e difficile, spiraglio in più.
Matthias Moretti