Al netto di alcune meritevoli eccezioni, si può tranquillamente affermare che, nell’ultimo decennio, la maggiore novità tra le pratiche di socialità e aggregazione all’interno del variegato arcipelago dell’antagonismo sociale, dell’opposizione alla mercificazione di ogni aspetto della vita e alle logiche di profitto, sia costituito dal poderoso sviluppo dello sport popolare. A prescindere dalle varie piattaforme di riferimento, sono sempre di più i collettivi in tutta Italia che sviluppano palestre popolari, squadre di calcio, di rugby, di basket ecc. In momenti di riflusso della coscienza sociale e politica, come quello che purtroppo stiamo vivendo sulla nostra pelle, proprio quello dello sport popolare sembra essere uno dei pochi ambiti capaci di regalare soddisfazioni: infatti attraverso l’azionariato popolare e i meccanismi assembleari si rinnovano e si perfezionano le pratiche di autogestione e di compartecipazione, e si ha la possibilità di coinvolgere in modo diretto quei quartieri e più in generale quei territori nei quali si vive la propria quotidianità e da cui, si spera, potranno svilupparsi nuove forme di resistenza al volto più odioso del nuovo ordine che si va delineando, quello sciovinista e marcatamente razzista e fascista.
Ma le soddisfazioni sono anche di ordine agonistico, basti pensare che solo in quest’ultima stagione un pugile, Carlo Bentivegna, ha lottato per il titolo nazionale, ci sono state sette promozioni tra le squadre di calcio, due nel calcio a cinque femminile e una nel basket, e ciò smentisce preventivamente chi avrebbe potuto insinuare che una visione etica, nonché militante, dello sport non possa essere ugualmente competitiva, e che per ottenere risultati bisogna necessariamente vendere l’anima al diavolo.
Purtroppo, e non potrebbe essere altrimenti, non è tutto oro quello che luccica, specie in un mondo del calcio dove anche a livello dilettantistico ci si scontra con una realtà che richiede grandi disponibilità economiche: gli approdi delle “nostre” squadre in nuove categorie finora mai esplorate hanno messo prepotentemente i soggetti in questione di fronte a delle prove dure da superare e a dei dilemmi da sciogliere, soprattutto per quello che riguarda i costi di gestione delle varie attività delle società, già difficilmente ammortizzabili per società “normali” che non hanno nessuna velleità sociale, figurarsi per chi fa dell’azionariato popolare e del rifiuto degli sponsor (o comunque di quelli non “etici”) una discriminante sin dalla propria nascita. Altro problema enorme è quello dell’accessibilità degli impianti sportivi, che implica spesso voci di spesa pesantissime per le società, oltre che una concezione di gestione della città e dei suoi spazi che abbiamo la possibilità di criticare duramente, o finanche di contrastare attivamente con delle campagne che possano coinvolgere anche altre compagini esterne al circuito dello “sport popolare”.
Durante i vari incontri, sia informali che non, che si sono tenuti in giro per l’Italia da Massa a Quarto, passando per l’evento cardine della No-Racism Cup di Otranto, è emersa la necessità sempre più condivisa di confrontarsi su questo grosso scoglio che rischia di far schiantare o comunque arretrare irrimediabilmente diversi progetti che ormai sono riusciti ad affermarsi compenetrando l’aspetto sociale con quello sportivo; abbiamo già visto come una realtà esplosiva come la compagine cestistica della Lokomotiv Flegrea si sia arenata sui costi gestionali della Serie D di basket, e grida di difficoltà e aiuto giungono anche da altri soggetti, come ad esempio lo Spartak Lecce o il Campobasso.
Proprio alla luce di queste nuove esigenze sviluppatesi inevitabilmente di pari passo con lo sviluppo di ogni progetto, si sente il bisogno di passare anche a una nuova fase del dibattito interno, in cui non ci si limiti a una semplice conoscenza reciproca, ma in cui ci sia una sorta di mutuo soccorso, un’individuazione di linee guida da tracciare da parte dei soggetti più esperti e avanzati. Non a caso, all’interno di una cornice prestigiosa com’è quella di “LOGOS, il festival della parola”, il dibattito verrà incentrato su queste specificità e potrà contare sui contributi di diverse realtà operanti in diverse zone dello stivale, dai padovani della Polisportiva SanPrecario, tra i più longevi, ai fiorentini del Centro Storico Lebowski, un esempio interessante anche (ma non solo) dal punto di vista della gestione economica; inoltre ci saranno diverse compagini locali che a loro modo si barcamenano nelle strettoie dei costi gestionali e dell’autofinanziamento, riuscendo da queste difficoltà a trarre nuova linfa per una maggiore interazione coi territori di riferimento, nel caso specifico parliamo dell’Atletico San Lorenzo e degli All Reds, senza dimenticare i “padroni di casa” della Lokomotiv Prenestino e anche l’encomiabile esperimento dei Liberi Nantes, che ha bisogno di sostegno soprattutto in questi momenti duri per chiunque sia dotato di un minimo di umanità e di raziocinio e non cede al vento di odio e discriminazione che mai come oggi spira con forza.
Probabilmente non si uscirà con una ricetta bell’e fatta e sarebbe strano il contrario, ma potrebbe essere già un buon viatico per indirizzare le riflessioni e gli sforzi in maniera cosciente verso quelle che sono le nuove sfide che lo sport popolare dovrà affrontare per non uscire ridimensionato, ma anzi per trovare nuovi stimoli e punti partenza dai quali individuare nuovi obiettivi.
La redazione