Il “limite”, questa era la parola d’ordine dell’edizione del 2018 di Logos – La festa della parola, uno degli eventi culturali indipendenti e antagonisti più importanti nella Capitale. E con immenso piacere abbiamo contribuito a costruire il dibattito che è andato in scena sabato pomeriggio, in cui si è cercato di calare il concetto di “limite” nella realtà attuale dello sport popolare. E il tema per la verità capitava a fagiolo, perché la questione più importante e complicata che molte realtà si stanno trovando ad affrontare in questi anni è proprio quella della sostenibilità economica, della conciliazione tra l’ottenimento dei risultati sportivi e il mantenimento di un modello organizzativo non solo diverso ma rivoluzionario. Insomma, è proprio a questo livello che si incontrano i limiti, e occorre attrezzarsi per affrontarli e superarli. L’incontro è stato ricco di interventi, da quelli programmati di Centro Storico Lebowski, Atletico San Lorenzo, Lokomotiv Prenestino (i padroni di casa dell’Ex Snia), San Precario (contributo video) e Lokomotiv Flegrea (via telefono), a quelli che si sono aggiunti, specie di realtà nate da meno tempo come Zona Orientale Rugby Salerno e Borgata Gordiani, e del Comitato di quartiere della Certosa.
La composizione era eterogenea, e inevitabilmente sono state diverse le tematiche e gli approcci, diversi i tipi di “limite” da superare. Non abbiamo alcuna voglia di fare uno scolastico riassuntino degli interventi, proveremo quindi a individuare i principali nodi tematici. Innanzitutto c’è un’enorme problematica che riveste sia l’aspetto del lavoro sociale che quello della sostenibilità economica, ovvero l’accessibilità delle strutture e il loro costo. Le logiche privatistiche di profitto con cui vengono sempre più governate le nostre città costringono a chi vuole fare sport in modo indipendente a fare i conti con una difficoltà rilevante e molto concreta: pagare un costo esorbitante per le strutture comunali o private, oppure “arrangiarsi” con la riappropriazione e l’autoproduzione (aspetto molto sviluppato dalla Lokomotiv Prenestino), cosa che può andar bene per realizzare attività amatoriali, ma che difficilmente otterrà mai le autorizzazioni per l’attività agonistica. Diventa quindi fondamentale difendere gli spazi pubblici esistenti, come sta facendo l’Atletico San Lorenzo con il suo campo di allenamento nel quartiere, minacciato dalla speculazione, ma anche immaginare battaglie future affinché chi fa sport senza profitto e per puri scopi sociali possa avere garantite strutture gratis o a costi estremamente ridotti. E perché no, estendere la cosa anche ai club “tradizionali”, perché fare sport a costi accettabili è qualcosa che dovrebbe spettare a tutti. Anche perché, in termini concreti, la spesa per le strutture rappresenta una fetta davvero grande dei bilanci di ciascuno, sono soldi che sarebbe bello spendere in altri modi, e ciò si estende senza eccezioni a tutte le discipline sportive. Una soluzione ideale, ma davvero impegnativa e da costruire nel tempo, è quella che sta sperimentando il Lebowski, che condivide con un’altra società la concessione del campo e quindi può strutturare la propria attività facendo diventare l’impianto sportivo “casa propria”, un vero e proprio spazio sociale polivalente dove poter costruire tutti i momenti di socialità che si desiderano, e contribuire all’autofinanziamento del progetto. Insomma, la nostra versione dello stadio di proprietà. Di proprietà collettiva, anche se ovviamente non si parla di una vera proprietà, ma di un uso continuativo.
Un altro elemento centrale e comune è quello della relazione con il territorio e le persone che lo abitano. Detto in termini più politici, del lavoro di massa. Quello che, se riesce, può farci parlare a ragion veduta di “sport popolare”. Garantire un’attività sportiva fruibile a tutti è non solo giusto, ma è fondamentale per garantire una base sociale ampia al proprio progetto, e per fare in modo che si possa instaurare il meccanismo per cui in tanti danno poco, riuscendo a raggiungere una buona indipendenza economica e soprattutto delle certezze, delle basi su cui poter programmare di anno in anno. Non dipendere da un mecenate ma da tanti piccoli contributori fa sì che si possa avere una certa serenità in questo senso: difficilmente ci si ritroverà col sedere per terra a causa dei capricci di uno o pochi individui. Anzi, una forte partecipazione delle persone può garantire anche la realizzazione di molte iniziative di autofinanziamento, che a loro volta garantiscono non solo la continuità ma anche l’implementazione di strutture e attrezzature necessarie a migliorare la qualità e la sicurezza di chi partecipa al progetto, come raccontavano anche realtà come Lokomotiv Prenestino e Rugby Zona Orientale. Far svolgere l’attività sportiva con la massima qualità possibile, ma soprattutto in sicurezza, è imprescindibile ma allo stesso tempo costa, l’esempio più classico è l’acquisto del defibrillatore, ma se ne potrebbero fare molti altri. In questa sorta di “mobilitazione del territorio” a sostegno della propria realtà sportiva possono rientrare anche gli sponsor, che sono un nodo spinoso e dibattuto, ma nessuno li rifiuta in toto. Se la questione dell’indipendenza del progetto, in linea teorica, potrebbe essere minata dalla presenza di partnership commerciali, sta però all’assemblea che porta avanti il progetto stesso il compito di scegliere quanto e da chi farsi sponsorizzare. In molti casi, concretamente, si tratta di sponsor che non investono cifre che rappresentano grosse percentuali dei bilanci, e che oltretutto fanno parte della schiera di persone vicine, simpatizzanti, coinvolte. Insomma, di attività che fanno parte di quella mobilitazione del territorio cui si accennava. Dal canto suo, il Lebowski ha portato l’esperienza di chi ha fatto più strada nella direzione di avere un bilancio consistente, sia grazie all’autofinanziamento che agli sponsor, sottolineando quanto sia importante garantire qualità a chi milita nel proprio progetto: un esempio significativo è stato quello delle spese mediche che la società paga ai giocatori che subiscono infortuni seri. Insomma, di soldi ne servono tanti anche solo per fare le cose giuste e necessarie.
Ma torniamo ai limiti, perché i rovesci, per quanto dolorosi, servono sia a chi li subisce che a tutti gli altri, per riflettere su come tornare a fare passi avanti. La Lokomotiv Flegrea, dopo che la sua squadra di basket si è conquistata sul campo la Serie D, ha dovuto rinunciarvi per insufficienza di fondi per affrontare l’iscrizione e la stagione. Una ferita che brucia tanto, ma questo dolore dovrà servire a capire come strutturarsi per evitare che ciò accada di nuovo. Un altro limite, sottolineato in particolare dalla San Precario, sta nella difficoltà di tesserare migranti e richiedenti asilo: dopo la vittoria nella scorsa stagione della campagna We want to play, il Decreto Salvini su immigrazione e sicurezza rischia di vanificare tutto e rendere di nuovo la vita impossibile a chi ha problemi con i documenti ma vorrebbe fare sport. Insomma, se si lotta per l’accessibilità universale all’attività sportiva, questo è un limite che bisogna cercare di abbattere in tutti i modi.
In conclusione, ci teniamo a sottolineare un aspetto che fa anche da auspicio per iniziative simili che si terranno in futuro: si stanno finalmente abbandonando le maniere “banali” di fare dibattito, limitandosi a raccontare la propria esperienza e a ripetersi “quanto sia bello e giusto fare sport popolare”. Si stanno affrontando, e sempre di più lo si dovrà fare, i temi nel loro aspetto crudo e concreto, dicendo fuori dai denti le cifre dei rispettivi bilanci, parlando anche di quello che non va, offrendo la propria soluzione se la si è trovata. Di questo passo la qualità del dibattito aumenterà, e i limiti diventeranno un pochino più facili da superare.
La redazione