Il Palestino ha ricevuto, alla vigilia della finale, una lettera di appoggio del presidente palestinese Mahmoud Abbas, nella quale quest’ultimo esprime l’orgoglio del suo popolo, perché sente come un proprio successo il fatto che questa squadra trionfi. Nella prossima stagione disputeranno la Coppa Libertadores.
L’immagine di copertina raffigura il Celtic Park, lo stadio del Celtic Glasgow dove è abituale vedere bandiere palestinesi.
Omar cammina con le mani in tasca. È già buio. Fa freddo in Cisgiordania la notte del 14 dicembre 2008. Ma Omar si è già lasciato alle spalle l’ostacolo più difficile: fortunatamente, ha perduto soltanto le due ore previste aspettando al checkpoint. Una raucedine, l’intonazione sbagliata, aprire o chiudere un occhio oltre ciò che appare normale, o il semplice malumore del poliziotto israeliano, avrebbero potuto lasciarlo sequestrato lì per varie ore. Ma non è stato così, e si accende una sigaretta come personale festeggiamento. Gli rimane mezz’ora di camminata per raggiungere Ramallah. Il vento secco fa in modo che la sigaretta si consumi rapidamente. Pensa di accenderne un’altra, ma poi preferisce conservarla.
Arrivato in città, ci sono vari locali nei quali l’agitazione è troppo grande per essere una domenica sera. Si dirige al ristorante di Nazim. Fuori dal locale si vede movimento, gente che discute, alcuni gridano, altri gesticolano con le mani al cielo. Volano anche insulti. Ma Omar non si preoccupa perché ha già la sua prenotazione in mano. Si apre la strada in modo deciso ma rispettoso tra quelli che reclamano sulla porta.
Il locale è pieno. Si pente di essere arrivato così tardi. Dovrà vedere la partita in piedi, appoggiato alla parete. Senza dubbio, quando Rubén Selman dà il fischio d’inizio, tutto il resto viene dimenticato. In molti portano le proprie magliette: regna indiscutibilmente la 25 di Bishara. Omar non ci può credere quando il compaesano Selman decreta rigore per il Colo-Colo ed espulsione del portiere Felipe Núñez. Gol di Lucas Barrios. Non riesce a distinguere gli insulti in spagnolo lanciati da un anziano inferocito seduto in prima fila. Ma se li immagina. La maggioranza impreca in arabo. E poi, quando Selman espelle anche Bishara, Omar si infuria veramente. Che ti derubi un compaesano è qualcosa di davvero incredibile.
Il Palestino è in nove. Inquadrano, di quando in quando, la piccola tifoseria araba, asserragliata nel settore Pacífico Lateral, in uno stadio tinto di bianco. Loro hanno fiducia. Omar ne viene contagiato con un contropiede di Paco Ibáñez che affronta Muñoz. Ora sono tutti in piedi. Il fumo ha formato una nebbiolina che rende difficile la visione dello schermo che sta in fondo, ma in qualche modo si vede. Il pubblico continua a fumare senza ritegno. Mancano solo dieci minuti. E gridano, tutti gridano a Paco Ibáñez che, dimenticandosi dei crampi, aggancia la palla a metà campo e con un mezzo giro su se stesso lascia per terra Luis Mena e se ne va con la palla tra i piedi a sfidare Miguel Riffo, devia verso sinistra per metterlo fuori causa e rimane solo davanti al Tigre Muñoz, conclude rasoterra, sul primo palo; e Omar diventa pazzo, si mette a saltare sforzando le corde vocali fino quasi a romperle e abbraccia e bacia tutti quanti. Hanno raggiunto un pareggio eroico nella finale d’andata. Manca ancora il ritorno, ma questa è un’altra storia.
Il solo fatto di esistere
Il Club Deportivo Palestino è unico al mondo. Non ce n’è un altro con lo stesso nome, né che lasci sventolare liberamente la bandiera palestinese. E si trova a tredicimila chilometri dalla sua madrepatria. Per quanto evitino le tematiche politiche contingenti, al Palestino hanno totale consapevolezza dell’enorme potenziale simbolico della propria maglia. Eugenio Chahuán, accademico del Centro di Studi Arabi dell’Università del Cile, commenta così l’importanza del Palestino: “C’è stata e continua a esserci una negazione storica da parte degli ebrei israeliani, fondamentalmente, dell’esistenza stessa dei palestinesi. E il Club Deportivo Palestino esiste da molto prima dello Stato di Israele, e oltretutto in Cile, dall’altra parte del mondo. Quindi c’è un tema di identità nazionale molto importante, la dimostrazione che già la prima emigrazione aveva intenzione di formare e organizzare istituzioni che portassero il nome e i colori della Palestina”.
Oltre a ciò, l’esistenza del Palestino è conseguenza di un altro fatto molto rilevante: quella cilena è la comunità palestinese più numerosa del pianeta al di fuori dei paesi arabi. Si calcola che i discendenti palestinesi siano all’incirca 500.000, i loro antenati arrivarono praticamente un secolo fa. E questa comunità ha anche raggiunto una posizione economica rilevante nel paese, e così, a giudizio di Chahuán, in Cile si produce una sorta di pareggio: “a dispetto dell’asimmetria, della capacità di Israele di fare lobby e ottenere influenza internazionale, con l’appoggio di potenze occidentali come tra le altre gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra, si è raggiunto un certo equilibrio perché la presenza e influenza palestinese è molto importante”.
Un altro aspetto che differenzia il Palestino da altri club di comunità immigrate sono le sue rivendicazioni indipendentiste, sotterranee, dissimulate, nascoste ma che sono intrinseche alla sua esistenza dall’inizio alla fine. Unión Española e Audax Italiano, ad esempio, sono allo stesso modo club di comunità, fondati da immigrati, ma nella loro identità non esistono questo tipo di rivendicazioni. Si potrebbe portare l’esempio del club argentino Atlanta, che ha un’importante influenza ebraica, ma non fu fondato da immigrati ebrei e non ha né un nome né uno stemma che riporti a Israele o al suo popolo.
L’influenza di questa comunità sul club divenne più evidente a causa dell’arrivo, durante gli anni ’20, di ebrei sefarditi nel quartiere di Villa Crespo, a Buenos Aires, dove sono situati la sede e lo stadio del club “boemo”. Qualcosa di simile è accaduto con l’Ajax ad Amsterdam e il Tottenham a Londra. Però, tornando al Palestino, quello che fa la differenza è che qui non stiamo in Palestina, ma dall’altra parte del mondo. Questo lo distingue, ad esempio, dall’Athletic Bilbao, che si trova nel cuore geografico delle rivendicazioni nazionaliste basche.
La maglia e la mappa
Di sicuro non c’è da essere frettolosi. Il Palestino non possiede un discorso politico o istituzionale davvero marcato né evidente, non c’è un indottrinamento riguardo alle rivendicazioni nazionaliste, né sui giocatori né sui funzionari. In generale, sono stati prudenti al fine di caratterizzare il club all’interno di una realtà strettamente sportiva, lasciando da parte la tematica politica. Va bene, quasi sempre, perché ci sono state un paio di occasioni, non molto tempo fa, nelle quali non si sono trattenuti.
Il primo precedente risale alla questione della maglietta del portiere Leonardo Cauteruchi, nel 2002, che aveva la mappa della Palestina disegnata sul petto. Ci fu un po’ di polemica, ma non andò molto oltre. Diverso ciò che è accaduto nel 2014, in quanto fu una decisione istituzionale. All’inizio del campionato di Clausura – il quale, per ridicolo che possa apparire, inizia nel mese di gennaio –, il Palestino sfoggiò una nuova maglietta che aveva una particolarità: il numero uno era stato rimpiazzato dalla forma di una mappa della Palestina secondo i suoi confini originari fino all’anno 1946, ovvero prima che nascesse lo Stato di Israele con una risoluzione delle Nazioni Unite.
Riuscirono a giocare tre partite con questa maglia prima che la comunità ebraica alzasse la voce attraverso la sua delegazione diplomatica: “l’Ambasciata di Israele considera che l’utilizzo della mappa di Israele sulla maglietta del Club Palestino sia una provocazione senza precedenti e particolarmente grave in quanto si realizza in un contesto sportivo”.
La questione arrivò fino alla stampa internazionale, facendo eco alla reazione furibonda del Ministero degli Esteri israeliano, che convocò in Israele i suoi diplomatici in Cile per esprimere loro il proprio malcontento rispetto a questa provocazione. “Un club cileno di calcio indigna Israele mettendo la mappa della Palestina sulla sua divisa”, titolò l’agenzia di stampa Russia Today. Il semplice simbolo della mappa sulla maglietta di un umile – si può dire il più umile – club della prima divisione cilena si ritrovava sulle prime pagine di tutto il mondo.
Tanto clamore causò una piccola sanzione economica da parte del Tribunale Disciplinare dell’ANFP. Il Palestino fu obbligato a togliere il numero uno a forma di mappa, ma il presidente del club, Fernando Aguad, non si fece intimidire e reinserì la mappa, non più rimpiazzando il numero uno, ma nella parte davanti, accanto allo stemma. Non sono autorizzati per usarla nel campionato ufficiale, ma per commercializzarla sì: la vendita di magliette del Palestino aumentarono di più del 300% dopo la polemica sulla mappa, e al club arrivarono richieste da Francia, Marocco, Turchia, Portogallo, Germania, Spagna, Brasile, Colombia, oltre che ovviamente dal Medio Oriente. Questo incidente dimostra che il potenziale simbolico del Palestino è enorme. E giustifica anche, in parte, la decisione istituzionale di non farsi coinvolgere nella politica contingente, ovviamente con questa piccola eccezione. Se continuassero su questa strada, smetterebbero di essere un club di calcio come sempre sono stati, e andrebbero a situarsi nel cuore del conflitto in maniera molto più evidente.
Il club utilizza il nome, i colori ed esattamente la stessa bandiera della Palestina. Sono molto pochi i luoghi nel mondo dove questa bandiera può sventolare liberamente come lo fa nel Municipal di La Cisterna. È molto probabile che i coloni fondatori del Palestino non si siano lontanamente immaginati il ruolo che il loro club avrebbe occupato nel mondo.
L’origine
La storia ci obbliga a tornare all’epoca dell’Impero Ottomano. Non vogliamo nemmeno esagerare, non torneremo al XIV secolo dove inizia la sua espansione, né parleremo della caduta di Costantinopoli né della favolosa multiculturalità di questo regno che aveva la sua capitale a Istanbul. Nemmeno andremo a perderci nella sua enorme estensione, comparabile a quella dell’Impero Romano, che partiva dall’Europa dell’Est, i Balcani, per arrivare all’Africa del Nord e parte del Medio Oriente. No, quello che ci interessa comincia nell’anno 1517 quando i turchi – sì, in fondo l’Impero Ottomano sono i turchi – conquistarono Gerusalemme e con ciò la Palestina cadde sotto il loro dominio.
I turchi erano – in grande maggioranza – musulmani, ma durante i secoli ci fu un clima di relativa tolleranza e rispetto delle minoranze religiose (ovvero ebrei e cristiani). Senza dubbio, già alla fine dell’Impero e soprattutto con la Prima Guerra Mondiale, si inasprirono le persecuzioni contro i cristiani ortodossi in Palestina. E chiaramente non dimentichiamo che l’Impero Turco era alleato della Germania in questa guerra brutale, e così molti giovani preferirono scappare piuttosto che essere mandati a morire sotto la bandiera di un esercito estraneo.
Fu allora che migliaia di palestinesi cristiani decisero di partire in esilio. Sicuramente salparono dal porto di Haifa, traboccando dalle stive delle navi, contendendosi il cibo con ratti, scarafaggi e parassiti. E, alla fine di una traversata infinita, sbarcarono in Cile. Perché proprio in Cile? In parte, giustamente, perché era dall’altra parte del mondo. E anche perché li accolse a braccia aperte. Molti arrivavano a Buenos Aires, dove però gli immigrati erano già troppi: italiani ed ebrei riempivano i posti di lavoro ed esaurivano le opportunità. La cosa curiosa è che questi palestinesi vennero a bussare alla porta mostrando l’unico passaporto che avevano: quello turco. Per questo chiamiamo turchi i palestinesi, e per questo l’appellativo non gli calza affatto. Lina Meruane lo riassume in modo magistrale nel suo libro Volverse Palestina: “Il nome nemico impresso come una maledizione eterna sopra la mappa sfocata di quell’immigrazione”.
Ma le peregrinazioni continuarono: il Club Deportivo Palestino fu fondato il 20 agosto del 1920 nella città di Osorno. Perché a Osorno? Lì si svolgevano una sorta di Olimpiadi delle comunità immigrate. Giovani atletici che avevano attraversato il mondo per non essere arruolati a forza dall’esercito dell’Impero Ottomano decisero di fondare un club, lì a Osorno, semplicemente perché non avevano chi li rappresentasse in quelle Olimpiadi. Volevano partecipare, sentirsi uguali ad altri immigrati come spagnoli, italiani, tedeschi e tanti altri.
Passarono più di trent’anni nei circuiti amatoriali con una rosa formata in maggioranza da giocatori arabi. Finché nel 1952, dopo aver nuovamente vinto le Olimpiadi delle colonie, li invitarono a far parte delle nascente Seconda Divisione. Raggiunsero la finale del campionato, e alla fine la vinsero ai rigori per 4-2 contro i Rangers de Talca, nello stadio della Braden Cooper a Rancagua, e con questa vittoria salirono nella Prima Divisione del calcio cileno. A quel punto gli imprenditori tessili della colonia si entusiasmarono per la squadra e la cosa si tradusse in un grande apporto di denaro e di gente sulle tribune. Il denaro venne utilizzato per operazioni milionarie. Fu così che allestirono uno squadrone nella stagione ’55, dove spiccava l’argentino Roberto Coll che veniva dal River Plate di Alfredo Di Stéfano, José Manuel Moreno e Ángel Labruna. Furono campioni.
In seguito ci avviciniamo a una storia più conosciuta dai tifosi: lo squadrone del decennio dei ’70. Il capitano era, né più né meno, il miglior giocatore cileno di tutti i tempi: Elías Figueroa. Ma don Elías non giocava da solo, c’erano anche Oscar Fabianni, Rodolfo Dubó, Edgardo Fuentes, Manuel Araya e molti altri che fecero di questo Palestino una delle migliori squadre cilene della storia. I campioni del ’78, che ancora mantengono il record di 44 partite senza sconfitte, che arrivarono al triangolare che andò a formare le semifinali della Copa Libertadores del ’79.
Immaginiamo per un attimo cosa sarebbe successo in Palestina se avessero avuto la possibilità di vedere le partite di questa squadra del ’78 sui maxischermi, come hanno fatto nel 2008. Come avrebbero goduto, come si sarebbero dimenticati la guerra, l’occupazione, il terrorismo, la repressione, semplicemente divertendosi a veder giocare Elías e Fabianni con la maglia della propria amata Palestina.
Un club cileno?
Sapevano appena parlare la lingua. Sicuramente, là in Palestina, non avevano mai sentito parlare di questo strano sport dove undici tizi passano il tempo a correre dietro una palla. Perché accadde loro, dopo così poco tempo dal loro arrivo, di fondare un club calcistico? Chissà, forse si trovavano senza molto da fare e invece di prendere il tram decidevano di camminare, e di soffermarsi qualche istante quando passavano vicino a un campo di calcio, domandandosi quale attrattività potesse avere questo ridicolo gioco, fino a che il loro sguardo non passava dai giocatori al pubblico e notavano quanto gridavano, come discutevano, come si divoravano le unghie quando attaccava la squadra avversaria, ed ebbero voglia di sentirsi come loro, questi strani cileni, e anche di sedersi sulle gradinate di legno a gridare, discutere, mangiarsi le unghie.
Secondo Eugenio Chahúan, la fondazione del Palestino “fu un modo di partecipare, di integrarsi, di utilizzare gli stessi linguaggi, le stesse forme di aggregazione che utilizzavano i cileni”. Ma questo successe quasi cento anni fa, e quelli che attraversarono il mondo per arrivare in Cile e fondare il club sono già tornati polvere da tanto tempo. Le migliaia di palestinesi sono nipoti o bisnipoti di coloro che arrivarono tanto tempo fa. E l’iniziativa dei loro antenati ebbe tanto successo con l’integrazione nella comunità cilena, che la maggior parte di essi si è “cilenizzata” quasi completamente, convertendosi a volte anche in tifosi di squadre più popolari. Inoltre, allo stesso tempo, il passare degli anni ha fatto attenuare il sentimento di appartenenza a quelle radici, trasformando il Palestino in una squadra “palestino-cilena”, allo stesso modo in cui l’Unión Española e l’Audax Italiano ormai non hanno più molto a che vedere con le rispettive colonie. Senza dubbio, è possibile che il fatto che la comunità sia così numerosa abbia portato come conseguenza che il Palestino goda di un’immensa simpatia in tutto il paese. C’è qualcuno che è felice quando perde il Palestino?
E la “cilenizzazione” non solo è avvenuta a livello di tifoserie, ma anche con i giocatori della prima squadra. All’inizio abbondavano i giocatori con cognomi arabi, ma adesso nella rosa del Palestino, dopo il recente ritiro di Roberto Bishara, non ce n’è più nessuno.
La Cisterna
Il rumore delle mani dei giocatori che schioccano le une con le altre nel salutarsi a metà campo prima di iniziare la partita. Il suono dell’impatto – nitido, eloquente – del collo del piede di Leo Valencia quando aggancia la palla per lanciare un gran pallone lungo alla ricerca di un morso del Tiburón Ramos. Le istruzioni di Darío Melo a Diego Rosende perché stia attento alla marcatura – si sente chiaramente: “Attento alle spalle, per la buona donna di tua madre!”. I passi di Jason Silva quando frena per tentare un dribbling di fronte a un difensore avversario.
Il silenzio della Cisterna permette che emergano i suoni tipici del calcio. Poca gente. C’è supporto, ma potremmo dire che sia un supporto individuale che si traduce in molteplici insulti all’arbitro e agli avversari di turno. Quelli che insultano in questo modo sono soprattutto quelli che stanno in balaustra. Hanno una posizione privilegiata e una cassa di risonanza assicurata dal tetto della tribuna. La partita è contro il Magallanes per la Coppa del Cile. A bordo campo si sta preparando a entrare per il Magallanes l’attaccante José Luis Villanueva (sì, lo stesso che ha giocato nel Católica, nel Racing e anche in nazionale), sfoggiando la sua invidiabile capigliatura dorata, e un tifoso furibondo dal naso prominente si porta le due mani alla bocca come megafono e lo chiama: “José Luis! José Luis!”. Una, due, tre, dodici volte, finché Villanueva, che si trova a non più di dieci metri, gira la testa. “Ti credi Beckham, ma non sei nient’altro che un uomo di m…!”. E la balaustra esplode di risate. E tutti si danno il turno per insultarlo con il rancore di chi lo vide debuttare su questo campo più di quindici anni fa.
Nel resto dello stadio si vede un aggregato decisamente più familiare, molto più che nelle partite delle grandi squadre. Tutto appare tranquillo, sicuramente ci sono parenti dei giocatori o ragazzi delle giovanili. A prima vista, la presenza della colonia appare più evidente nella balaustra. Nel resto dello stadio ci sono molti – si potrebbe dire la maggioranza – che non hanno discendenza araba, ma che dopo solo pochi minuti di conversazione manifestano una forte adesione alla causa palestinese. Molti sono diventati tifosi con quella squadra favolosa di Elías e Fabianni che umiliò tutto il Cile durante la mitica stagione ’78.
Ogni bambino, per sua natura, è impressionabile e la scelta di una squadra di calcio è una cosa che ti compromette più di qualunque altra. Molti cambiano partner, religione, opinione politica, preferenza sessuale, ma cambiare squadra è un’altra cosa. E quei bambini che rimanevano meravigliati dal miglior giocatore della storia del Cile, non avrebbero mai immaginato di finire a vedere una partita con trecento persone alla Cisterna. Ma continuano a farlo. E aspettano tutta la settimana, ansiosi, come se potessero tornare a essere quei bambini del ’78, che arrivi una volta per tutte la domenica e possano sedersi su quelle gradinate di pietra. Questi tifosi non hanno niente a che vedere con la colonia, ma è talmente tanto l’affetto che hanno riservato alla squadra, che solidarizzano profondamente con la causa palestinese. Così come ci sono migliaia di discendenti di palestinesi che adesso tifano per il Colo-Colo o per la U, è altrettanto certo che c’è un manipolo di fanatici che sono diventati palestinesi d’adozione.
Abbondano le raccolte fondi in favore di Gaza, alcuni portano la maglietta con la mappa, altri esigono la fine del genocidio. Il tifoso del Palestino, in grande maggioranza, appoggia la causa. Come racconta Felipe Núñez, il giocatore che arriva nel club non percepisce la sua dimensione politica, almeno non all’inizio. Ma quando rimane per due o tre stagioni e comincia a interagire di più con i tifosi, si rende sempre più conto del peso reale del sentimento di giocare con questa maglietta così carica di significato. Anche se questa relazione, stando anche alla critica di Núñez, incontra qualche ostacolo: “Molte delle attività del club si svolgono allo Stadio Palestino, che la maggior parte dei cileni mette in relazione a gente potente, a un settore molto chiuso della società, e credo che il Palestino dovrebbe rappresentare tutto il contrario”.
Senza dubbio, il discorso istituzionale non è lo stesso che fanno i tifosi. Si possono vedere dirigenti a cui la causa tronca il fiato, la sentono gonfiando le proprie vene, sicuramente si mordono la lingua per non parlare in conferenza stampa denunciando quello che accade nella terra dei loro antenati. Ma tacciono, si vedono obbligati a mostrare un sorriso di circostanza e a cambiare argomento. Il Palestino non fa politica, non è una squadra militante; come istituzione, deve mantenersi ai margini. Del resto il suo potenziale simbolico è talmente grande che una militanza più attiva potrebbe anche avere effetti incontrollati, compreso provocare reazioni ancora più violente dall’altro lato del mondo.
Maggio 2018. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Mahmud Abbas, ha visitato a Santiago i dirigenti e la rosa del Palestino.
Verso l’esterno c’è misura, pacatezza, temperanza. Ma sul fronte interno le cose stanno cambiando e negli ultimi anni, sotto la presidenza di Fernando Aguad, si sono fatti passi concreti per riaffratellare il Palestino con la sua madrepatria. Alla famosa questione della mappa si somma il fatto che il principale sponsor sulla sua maglia è la Banca di Palestina. Inoltre nel 2013 il club ha organizzato una visita del suo capitano, Felipe Núñez, insieme alle giovanili, in terra di Palestina. Benché venisse da dieci anni come portiere del club, Núñez confessa che “con il viaggio uno sente una diversa responsabilità e dà un altro valore al fatto di vestire la maglietta del Palestino”. E questo impatto lo hanno vissuto allo stesso modo i ragazzi delle giovanili che lo hanno accompagnato, che per la stragrande maggioranza non appartengono alla colonia, ma che sicuramente hanno assimilato cosa significhi mettersi questa maglia molto meglio di vari giocatori della prima squadra.
La Selezione
Roberto Bishara aveva dolori in tutto il corpo. Era rimasto ventisei ore a bordo di un aereo viaggiando da Santiago a Tel Aviv. Parliamo del secondo semestre del 2008, alla metà di quell’epico campionato di cui finirà di vedere la finale a Ramallah. Camminava per l’aeroporto di Tel Aviv, zoppicando un pochino a causa della gamba addormentata, tipica dei viaggi transoceanici in classe turistica. Era la prima volta che andava a giocare per la nazionale palestinese. Si reinaugurava lo stadio Faisal Al-Husseini, a soli 600 metri dal muro che separa Israele e Cisgiordania, due anni dopo che era stato distrutto da un bombardamento israeliano. Era, né più né meno, la prima partita che la Palestina giocava in casa nella sua storia.
L’avversario era la selezione della Giordania, o almeno questo era quello che Bishara cercava di spiegare, seminudo, ai poliziotti israeliani, che già da più di due ore lo stavano interrogando in un’oscura sala dell’aeroporto Ben Gurion. Non gli credevano, racconta il Tito, suonava come la scusa di un terrorista, nelle loro menti semplicemente non era possibile che esistesse una selezione della Palestina, perché per loro non esisteva la Palestina. Dovette scordarsi il bagaglio e la macchina fotografica, ma alla fine lo lasciarono passare. E Bishara, che un anno più tardi sarebbe stato capitano della nazionale, poté giocare questa storica partita contro la Giordania che terminò sul punteggio di 1-1.
Ma lui non è l’unico. Sono vari i cileni che hanno giocato per la Palestina: Edgardo Abdala, Leonardo Zamora, Alexis Norambuena, Patricio Acevedo, Pablo Abdala, Matías Jadue naturalizzato di recente, tra gli altri. Senza dubbio, ce n’è uno solo così emblematico come Tito Bishara: Roberto Kettlun conta più di venti partite con la nazionale e gioca nell’Hilal Al-Quds nel campionato locale. Se c’è una maglia con maggior potere simbolico di quella del Palestino, questa è proprio la maglia della nazionale palestinese. La nazionale esiste perché la FIFA è una delle poche istituzioni che riconosce l’esistenza della Palestina. Nelle sue partite, così come in quelle del proprio club fratello dall’altra parte del mondo, sventola ufficialmente la bandiera della Palestina.
Se c’è un luogo dove è difficile giocare a pallone, quello è la Palestina. Roberto Kettlun racconta: “Molte volte si blocca l’equipaggiamento che ci invia la FIFA, che sia per gli allenatori oppure il materiale sportivo. Quando si chiamano degli specialisti perché diano delle lezioni ai nostri allenatori, li respingono alla frontiera e non li lasciano entrare. Così come organizziamo tornei e rimandano indietro la metà delle squadre rivali”. Senza dubbio, nonostante gli ostacoli, la repressione, il giocare molte volte con i missili che sibilano sopra la testa, quest’anno hanno raggiunto la qualificazione alla Coppa d’Asia del 2015, il maggior risultato della loro storia sportiva. Il calcio cresce, avanza, si moltiplica specialmente di fronte alle avversità.
Più che le difese avversarie, il grande nemico della squadra sono i checkpoint israeliani che limitano la libertà di movimento all’interno dei territori palestinesi. Molti rimangono senza allenarsi perché li trattengono per molte ore senza motivazioni apparenti, racconta Bishara. Di fatto, nel 2010 trattennero dieci giocatori della nazionale palestinese in uno di questi controlli. E Tito Bishara già era seduto sull’aereo, aspettando che iniziassero le ventisei ore di volo, più gli esaustivi interrogatori, per mettersi la sua maglietta, quando lo chiamarono per telefono per avvisarlo che la partita sarebbe stata sospesa.
L’aereo non era ancora decollato. Chiese di scendere. Non glielo permisero. Il pilota, seduto in cabina, preparandosi per il decollo, vide apparire un arabo agitato che faceva richieste fuori dal protocollo. Con calma, chiese al resto dei passeggeri se dovesse abbandonare l’aereo. Aveva di fronte a sé un arabo con un comportamento da sospetto di terrorismo. Il pilota e l’equipaggio chiesero aiuto alla Polizia Internazionale, che si portò via il passeggero sospetto, per la tranquillità del resto dei passeggeri, che aspettavano nervosi ai loro posti. Roberto riuscì a contenere la sua rabbia; almeno lo avevano fatto scendere dall’aereo. Dopo un bel po’ di tempo, ottenne che capissero il suo problema e fu lasciato in libertà.
Oltre alle difficoltà di movimento, c’è un rischio ancora peggiore: la morte. Bishara ricorda un giorno nel quale arrivò un suo compagno a tavola piangendo, ma era un pianto tranquillo, senza stupore. Sua nonna era appena morta perché era caduta una bomba sulla sua casa. Tito non poteva credere che lo stesse raccontando così, come se fosse la cosa più normale del mondo, e che il giorno successivo continuasse ad allenarsi come se nulla fosse. “Non ho mai superato questa sensazione di giocare nel mezzo di una guerra, ma loro sembravano essercisi abituati”.
Nelle partite della Palestina il pubblico si mostra entusiasta, tutti sono coscienti del valore enorme che ha per loro la sua stessa esistenza. Per questo, forse, festeggiano i gol con ancora più euforia del tifoso comune. Un gol della Palestina nel nostro stadio vale più di cento cannonate, ha detto una volta Bishara. E in questo stadio, là nella fragile, soffocata Palestina, si possono vedere – moltiplicate, orgogliose – le magliette del Palestino con la mappa della loro terra tatuata sulle spalle.
Da revistalibero.com, autore Nicolás Vidal di Revista de Cabeza, per la rivista Un Caño
Traduzione di Matthias Moretti