San Giovanni Rotondo dista ben 559 km da Reggio Calabria, punta estrema della nostra penisola (volendo arbitrariamente escludere la Sicilia), eppure la località nota più che altro per Padre Pio e il business che la sua figura ha comportato (a quanto pare così redditizio da poter permettersi di “comprare” l’arrivo di una tappa per la modica cifra di 180.000 euro, grazie anche all’istituzione di una tassa di soggiorno che rimpinguerà le casse dell’amministrazione locale), sede designata dell’arrivo della sesta tappa del centoduesimo Giro d’Italia, sarà il punto più a sud della “Carovana Rosa”; una corsa ciclistica nazionale che nonostante si dimostri attenta al simbolismo e alle celebrazioni (dal passaggio a Vinci in occasione dei cinquecento anni della nascita di Leonardo, al passaggio tra Cuneo e Pinerolo per celebrare i settant’anni dell’epica impresa di Coppi) di fatto esclude dal suo percorso almeno un terzo del territorio italiano, per la precisione sette delle venti regioni che compongono la nostra nazione.
Un po’ come succedeva negli anni ’50 quando il Sud scontava la mancanza di strade e infrastrutture adibite a un simile evento, ma nonostante ciò, il ciclismo era lo sport più amato che grazie all’epica rivalità tra Coppi e Bartali riusciva a sopportare più agevolmente le fatiche di una ricostruzione materiale e morale dopo lo sfacelo della guerra.
A differenza di quanto avvenuto per la scorsa edizione, quella della scelta di far partire il Giro da Israele - con tutta quella tragicommedia sulla dicitura Gerusalemme Ovest e la poco onorevole retromarcia degli organizzatori - e a dirla tutta anche quella del prossimo anno che partirà dall’Ungheria di Orban, le polemiche non hanno alcunché di ideologico (ferma restando la validità delle proteste dell’anno scorso a cui, pur nel nostro piccolo, abbiamo dato il nostro contributo), bensì si basano su osservazioni logistiche e di buon senso che neanche le motivazioni degli organizzatori sull’aver realizzato un percorso avvincente, forse il più duro tra gli ultimi tracciati (quando in realtà a ben vedere, almeno fino alla dodicesima tappa, sarà difficile parlare di tappe se non memorabili, quanto meno emozionanti), sono state in grado di placare, anche perché, a ben vedere, quello che è il miglior ciclista italiano, Nibali, è siciliano, messinese per la precisione, e arrivare dall’altra parte dello Stretto sarebbe stato un giusto omaggio all’unica speranza di maglia rosa dei nostri corridori.
D’altro canto lo scollamento tra il Giro d’Italia e il Meridione non è affatto una novità: la corsa è partita o arrivata in una città del Sud solo trentacinque volte e solo per attenerci alle ultime edizioni, visto che nel 2012 e nel 2015 la corsa si fermò nel Sannio e nel 2017 la Campania fu letteralmente aggirata dando a quell’edizione una marcata impronta “adriatica”, e senza dimenticare quando a Nocera Inferiore nel 2014 un filmato di uno spettatore immortalò un corridore dell’Astana mentre gridava “terroni!” al pubblico.
Naturalmente, non ci appelliamo a un complottismo estemporaneo, e nonostante gli orientamenti decisionali di RCS, organizzatore della corsa, non si siano mai distinti per progressismo, ma anzi abbiano sempre avuto una linea tipica del conservatorismo nostrano, sempre pronto a saltare sul carro del potente di turno, sappiamo benissimo che, come è in voga dire in questi periodi, “ è una questione di opportunità”, cioè in parole povere di soldi, di “contributi” per accaparrarsi l’arrivo o la partenza di una tappa, una sorta di mercimonio, legittimato anche dai “bonus di partecipazione” che di fatto sono degli inviti a pagamento per i corridori più forti e famosi (secondo la stampa specializzata per far venire Lance Armstrong bisognò arrivare a staccare assegni a “sette zeri”) che adesso vengono ufficialmente negati, ma che sono un po’ il segreto di Pulcinella. Motivo per cui neanche la prossima capitale europea della cultura, vale a dire Matera, verrà attraversata dalla Carovana Rosa, pare che gli organizzatori abbiano chiesto ben 500.000 euro al capoluogo lucano, in fin dei conti non è né il primo e purtroppo non sarà nemmeno l’ultimo caso in cui lo sport e la passione popolare si piegano di fronte alle esigenze di fare cassa. Se a tutto ciò si aggiunge che comunque l’arrivo di una corsa simile (che vale la pena ricordare anche secondo il quotidiano francese “Le Monde” in questo momento ha più appeal dello stesso Tour de France, essendo la corsa che, al netto degli infortuni e dei forfait all’ultimo minuto, avrebbe avuto i migliori corridori) comporterebbe delle spese per la messa a norma dei percorsi tra asfalto e sicurezza che ricadrebbero sulle già tartassate casse degli enti locali, possiamo davvero renderci conto che se gli organizzatori non fanno delle differenze tra Nord e Sud, quanto meno cristallizzano quelle esistenti create dalle gestioni politiche dei vari territori e su un’Italia sempre più a due velocità.
Giuseppe Ranieri