Poco più di un anno fa ci trovavamo a tirare le somme di quella che è stata la stagione più trionfale finora per tutto il movimento del calcio popolare (con ben 7 campionati vinti nel calcio maschile, due campionati femminili e uno di calcio a cinque) che coincideva con uno dei momenti più tristi e depressi per il calcio italiano, culminato nell’inopinata esclusione della nostra nazionale dai Mondiali russi e da grottesche discussioni, o sarebbe meglio dire aspri contraddittori, a mezzo tv (rigorosamente a pagamento) tra gli esteti e gli utilitaristi del calcio, col discorso che inevitabilmente andava a premiare chi vince, perché “chi vince ha sempre ragione”, come alla fine funziona ovunque ed emerge anche dalle ultime elezioni europee.
A distanza di dodici mesi esatti, e con ancora una “nostra” formazione impegnata nei play-off, la Lokomotiv Flegrea (a cui va il più sincero “in bocca al lupo” di tutta la redazione), era ampiamente preventivabile un calo fisiologico delle vittorie, non fosse altro per le difficoltà incontrate nell’approccio coi campionati superiori; mentre in maniera speculare il calcio “mainstream” non finisce di regalare spunti di riflessione. Non parliamo di sorprese, perché in fin dei conti vediamo soltanto dei processi che stanno proseguendo nel solco tracciato in precedenza: certo vedere il principale detrattore dell’estetismo calcistico, colui che sbeffeggia chi prova ad avventurarsi in analisi tattiche contrapponendogli i numeri delle vittorie e la cifra tecnica dei suoi singoli - Allegri - farsi eliminare da quello che era il principale obiettivo stagionale da una squadra votata alla bellezza e al gioco collettivo, può essere interpretato come un beffardo contrappasso dantesco; ma questo finale di stagione, tra imprese a metà, “biscotti” e progetti sulla prossima stagione, iniziati prima di aver messo in saccoccia questa, ha posto il focus su alcune questioni di primaria importanza.
Se da un lato appare ormai palese che, come riportano anche “Calcio e Finanza” e “Business Insider”, la bolla degli abbonamenti televisivi stia scoppiando, visto che gli introiti non aumentano più, vuoi anche per quell’operazione da “delitto perfetto” realizzata in combutta tra Sky e Dazn, la cosa più grottesca resta il “decisionismo ad personam” che attanaglia la nostra Serie B, in balìa di un burattinaio che è allo stesso tempo arbitro e parte in causa. Così, di punto in bianco i play-out vengono cancellati, salvo poi il pronunciamento del Tar e del Collegio di Garanzia dello Sport a bloccare questa decisione e almeno momentaneamente (il condizionale è d’obbligo), porre un argine alla deriva schizofrenica che è stata il tratto distintivo di quella che probabilmente è la stagione più tormentata della Serie B, roba che quella dell’allargamento a 24 squadre tramite il caso Catania, nell’estate del 2003, in confronto sembra ordinaria amministrazione.
Tuttavia, crediamo che per capire bene il vicolo cieco in cui ormai si è infilato il calcio italiano, al di là della retorica (sebbene legittima) sulla finanziarizzazione del calcio, dovremmo soffermarci sulle vicende che hanno colpito alcune piazze storiche: per quanto differenti, le vicende di Napoli, Firenze, della Genova rossoblù, di Palermo, della stessa Salerno e anche della Roma (giusto per soffermarci alle categorie superiori) e dei relativi presidenti, parlano di un’insofferenza che ha anestetizzato piazze che alla penuria più o meno cronica di vittorie hanno sempre sopperito con l’ineguagliabile passione non solo dei propri ultras e delle relative curve, ma con l’amore viscerale che tutta la tifoseria, per non dire le rispettive città di appartenenza, non hanno mai fatto mancare. Motivo per cui, per quanto possano stare simpatiche o meno certe tifoserie, fa sicuramente male a tutti gli amanti del calcio vedere certi stadi semivuoti o comunque spogli e in aperta contestazione.
Al di là delle diverse situazioni e dei differenti andamenti della stagione (a ben vedere, tanto per fare un esempio, il Napoli è arrivato secondo e probabilmente per trovare un San Paolo così spoglio e spento bisogna tornare al 1997-98, stagione in cui la squadra partenopea arrivò ultimissima con quattro avvicendamenti in panchina), il comune denominatore è l’insofferenza verso un ben determinato tipo di interpretazione del proprio ruolo e di gestione della società, da “uomo solo al comando” che non ha tentennamenti nel mettersi contro la piazza, salvo poi andare a lamentarsi sulle televisioni quando il giochino gli sfugge di mano e gli viene chiesto conto dell’operato, e a quel punto li vediamo sfoderare l’arma del ricatto dell’«o io, o il nulla!», atteggiandosi a uomini della provvidenza senza i quali sarebbe impensabile la sopravvivenza, a cui ormai anche i risultati ottenuti sembrano essere niente di più che una toppa passeggera che non è in grado di coprire definitivamente il buco creato. Insomma un refrain di quello a cui siamo stati abituati a sorbirci in diverse salse nelle vicende politiche e anche, a maggior ragione, in quelle realmente aziendali.
Il comune denominatore sono quindi quei presidenti istrionici, per non dire arroganti (e con magari alle spalle diverse ombre, che siano quelle di Calciopoli come per Della Valle e Lotito, delle combine come per Preziosi o di precedenti fallimenti come per Zamparini e lo stesso Preziosi), arrivati come salvatori della patria e in alcuni casi innamorati da sempre della squadra in questione, che poi mortificano la piazza procedendo, attraverso la “criminalizzazione della contestazione”, a quella trasformazione concettuale del tifoso in cliente che sembra essere da un lato l’ultima frontiera della trasformazione del calcio moderno, e di contro la barricata sulla quale attestarsi per difendere quel poco che dà ancora un senso al calcio per come lo intendiamo noi e che, oltre al danno la beffa, pretendono anche di dare lezioni ai tifosi su come si faccia i tifosi, prima di farli tornare all’occorrenza “clienti”, “fucking idiots” o “gli spacciatori delle curve”. Un po’ come quella situazione che pensiamo sia successa almeno una volta a tutti, in cui i tuoi conoscenti che non sono schierati come te, vogliono spiegarti come si vive e si pensa da compagni…
Non si tratta di essere anacronisticamente romantici, sappiamo che al giorno d’oggi nel calcio e non solo lo spazio per i sentimenti è ridotto al minimo sindacale, ma sentirsi fare dei sermoni sulla necessaria aziendalizzazione del calcio da presidenti incompetenti, per non dire imbroglioni o “poco limpidi”, che poi riescono a salvare la categoria all’ultimo attraverso prestazioni poco dignitose (come ad esempio la partita del “Franchi” tra Fiorentina e Genoa), è uno schiaffo morale che non meriterebbe nessun tifoso autentico. Il quale al momento non ha nessun’altra arma se non la diserzione, cosa che però lascia di fatto le redini in mano a chi si barcamena tra plusvalenze e sponsorizzazioni, e per cui fare calcio ad Aosta o a Palermo, a Enna o a Brescia cambia davvero poco, purché ciò generi dividendi. Gente che nello scollamento tra sé e il popolo, inteso come comunità di riferimento che si riunisce intorno a una squadra calcistica che è un patrimonio collettivo, sta creando un nuovo status-quo che rievoca la polarizzazione della società odierna che viviamo quotidianamente e a cui dobbiamo necessariamente trovare una risposta che al momento continuiamo a individuare (oltre a una diserzione nichilista, ma pur sempre da rispettare, perché sappiamo bene quanto possa fare male stare lontano da ciò che più si ha a cuore) nell’autorganizzazione dei tifosi e nella creazione di strutture - formali o meno - in grado di far sentire la propria voce ai vari magnati in cerca di fortuna con le nostre squadre e di controllare il loro (spesso dubbio) operato, non per bloccare la realizzazione di profitti individuali (non ancora…), ma per tutelare il rispetto per i tifosi e per la storia delle varie squadre e città, che tuttora rende il calcio qualcosa di diverso da “ventidue uomini in mutande che corrono dietro un pallone”.
D’altronde, “se non ora quando?”.
La redazione