La notizia era nell'aria già da un bel po’, tant'è che volendo usare della facile ironia, si può affermare che il flirt tra Maurizio Sarri e la Juventus fosse il segreto di Pulcinella, ma nondimeno l'annuncio ufficiale comparso ieri sul sito della società bianconera assume ugualmente una valenza multipla. Non solo dal punto di vista tecnico, poiché si è andata a riempire l'ultima casella, la più importante tra le panchine vacanti, quella dei campioni in carica che tengono in ostaggio il campionato da ormai otto anni e che nello stesso tempo hanno lasciato alla concorrenza nient'altro che le briciole sotto forma di qualche Coppa Italia e supercoppette varie. Tutto sommato quindi, se dovessimo soffermarci ad analizzare l'aspetto tecnico, l'operazione avrebbe eccome una sua logica: la squadra più forte d'Italia, la cui società è ancora anni luce davanti alle altre, ingaggia un allenatore valido che si è appena affermato anche in campo internazionale, grazie all'Europa League vinta poche settimane orsono e con uno dei sistemi di gioco più interessanti e apprezzati tra i colleghi del vecchio continente.
Tutto, fin qui, non fa una piega, se il calcio non fosse altro che una ridda di statistiche, se vincere fosse "l'unica cosa che conta", sarebbe tutto così tremendamente logico e blindato sotto la tutela dell'utilitarismo. Il guaio è che per tantissimi appassionati, il calcio è molto di più di un coacervo di numeri, di un campionario di plusvalenze o di un paragone tra fatturati; è questione epidermica, un fatto di appartenenza, è poesia e allo stesso tempo metafora della vita. E se proprio dovessimo attenerci a quest'ultimo concetto, l'approdo di Sarri alla Juventus non segna semplicemente la cesura tra la vecchia stagione e la nuova, segna la fine di una suggestione durata qualche anno e di una retorica dal basso contro il potere precostituito e immutabile (di cui la Juventus non è altro che l'emanazione del calcio, uno dei pilastri del gattopardismo italiano), che, lo dico senza vergogna alcuna, aveva sedotto anche il sottoscritto che non era mai stato un simpatizzante del Napoli, in compagnia di milioni di calciofili che, al netto di partigianerie da campanile, probabilmente avevano bisogno di credere in un qualcosa che andasse al di là del culto della vittoria a tutti i costi e dell'arroganza di chi vince sempre, nel calcio come nella vita, nonché un valido antagonista alla spocchia di chi monopolizza il campionato da tanto, troppo tempo. Lo abbiamo fatto a tal punto da immedesimarci in quella che è stata la grande sfidante dei campioni in carica entusiasmandoci per le vittorie (chi non ha esultato per la rete di Koulibaly con cui sembrava che il Napoli avesse fatto saltare il banco?...) pur consapevoli nell'intimo della differenza di valori tra le due squadre, ma lo abbiamo fatto perché insofferenti di fronte alla realizzazione del neoliberismo vincente applicato al calcio e della retorica padronale. In molti ci eravamo illusi di aver scorto in Sarri i tratti del capo dei ribelli, quando in realtà era ed è semplicemente un uomo come tanti altri con pregi e difetti, a tal punto da voler chiudere gli occhi sui suoi limiti tattici e caratteriali (cose che hanno anche tutti i suoi colleghi, chi più, chi meno), dalla spasmodica ricerca di scuse, spesso poco credibili, di fronte le sconfitte, all'essersi voluto fossilizzare sullo stesso schema e sui medesimi uomini, trovando molte difficoltà nel ribaltare l'inerzia delle partite quando questa si rivelava sfavorevole. Gli abbiamo perdonato anche uscite poco felici come quando definì Mancini "finocchio", cosa che, diciamoci la verità, se l'avesse detta qualsiasi altro allenatore, gli avremmo appiccicato addosso etichette e bandi; in fin dei conti a far pendere per lui la bilancia c'era quella tuta indossata con fierezza che lo differenziava da quei suoi colleghi manichini in giacca e cravatta che sembrano tanti manager di una fottutissima azienda qualsiasi, c'era la storia dei diciotto uomini sufficienti per fare un colpo di Stato (ma a quanto pare, non a vincere uno scudetto), la difesa del Venezuela chavista, le battute sui democristiani e i continui riferimenti a chi si alza all'alba per andare a lavorare, tutte quelle frecciatine proprio contro la Juve, ma più in generale quel suo essere sanguigno, tenendo a bada un presidente che di calcio capisce molto poco come ADL, e quell'idea di fierezza e orgoglio che i soldi non avrebbero mai potuto comprare che aveva fatto innamorare tutti, o per lo meno quella metà d'Italia che non lo avrà come allenatore della sua squadra del cuore l'anno prossimo.
Perché nella saldatura tra calcio e vita quotidiana, non c'era bisogno di un romanticismo esasperato per essere dei suoi estimatori, bastava giusto sentirsi il sangue scorrere nelle vene per provare empatia con quella rappresentazione del bello che era il suo Napoli, pur senza vincere, ma ugualmente a testa alta, la cosa che si avvicinava di più allo squadrone cantato da Max Pezzali ne La dura legge del gol ai tempi degli 883; la possibilità di vincere senza sospetti, aiutini e veleni, ma solo grazie a un gioco spumeggiante; un po’ come tutti quelli che non vogliono arrendersi all'evidenza di dover vivere in una società governata dai dettami del libero mercato e di dovervi sottostare, convinti che si può ancora buttare il cuore oltre l'ostacolo e che esiste qualcosa che i soldi non possono ancora comprare.
Il connubio tra la Vecchia Signora e l'allenatore che fino a ieri sembrava la nemesi dello "stile Juve" ha posto drasticamente fine a quest'universo simbolico, come quando la sveglia ti interrompe un bellissimo sogno per ricordarti che devi andare a lavorare per procrastinare la tua vita da sfruttato, come quando rivedi il tuo compagno di scuola attivo nei collettivi che a distanza di anni si è lasciato ammaliare dalla retorica della sovranità di matrice salviniana, come quando le storie tipo "due cuori e una capanna" si ritrovano sommerse da bollette da pagare, o come quando Neffa fece un pezzo con J-Ax.
In qualsiasi modo la si voglia mettere, quello che è indubbio e che abbiamo imparato a nostre spese, è che nel calcio come nella politica e nella vita in generale, quando impersoniamo le nostre aspettative su di un unico soggetto, dobbiamo fare i conti con la sua caducità e le sue debolezze umane. Oltre al danno la beffa, perché questa unione diventerà sicuramente una freccia nell'arco della retorica "anti-antijuventina" secondo cui chi critica la Juve lo fa perché non vince e adesso smentirle sarà quasi impossibile.
Al netto della legittima incazzatura dei tifosi napoletani che si sentono come amanti traditi e come tali ora sputano veleno sulla vecchia fiamma, a tutti noi altri resta la consapevolezza di iniziare una nuova stagione senza favole, ma anzi consapevoli che la dittatura sul campionato sarà più dura del passato e che non ci sarà nessuna favola da tramandare ai posteri, ma non di meno si può lasciare il campionato in mano ai suoi aguzzini che hanno attirato nel Palazzo colui che doveva assaltarlo. Non ci sono più altre squadre su cui riversare speranze come il popolo disperato di cui parlava Brecht, ma anche in questo caso come in ogni aspetto della quotidianità, una volta appurato che non esiste la felicità, toccherà trovare il modo di essere felici senza.
Giuseppe Ranieri