Si fa in fretta a dire che lo sport e la politica dovrebbero restare separati su due piani che non devono mischiarsi mai. Peccato che a ben vedere chi propugna queste tesi lo fa spesso e volentieri (per non dire sempre) in malafede e anche il caso di cui vi stiamo per raccontare non fa eccezione.
Mercoledì scorso si sarebbe dovuta disputare la finale di ritorno della Palestine Cup, una delle principali competizioni calcistiche per il popolo palestinese, tra il Markez Balata (vincitore della Lega Nazionale Maschile del Nord, quella della Cisgiordania) e il Khadamat Rafah, (vincitore di quella del Sud, vale a dire i territori della striscia di Gaza) terminata per uno a uno all’andata, ma questa partita non si è mai disputata.
La motivazione è da ricercare negli umori delle autorità israeliane che si sono rifiutate di consentire l’ingresso alla spedizione del Khadamat Rafah, adducendo non meglio specificati motivi di sicurezza, una sorta di passepartout utilizzato con un’estenuante frequenza da parte delle autorità dello Stato sionista per menomare ulteriormente le già limitate possibilità di transito e di accesso allo sport da parte del popolo palestinese.
Nello specifico, solo quattro delle trentacinque persone che figuravano nella lista della formazione ospite (il presidente, il suo vice, un medico e un singolo calciatore) erano state autorizzate a recarsi nella striscia di Gaza, e altri due dirigenti si sarebbero potuti aggiungere qualora avessero accettato di farsi interrogare dalle autorità israeliane, con tanti saluti allo statuto della FIFA e alla garanzie che dovrebbero avere gli atleti palestinesi.
D’altro canto una tale situazione non è certo una sorpresa né una novità assoluta, visto che ogni anno Israele escogita qualche stratagemma per rendere quantomeno il più difficoltoso possibile lo svolgimento di queste competizioni e la stessa FIFA, la principale sostenitrice della separazione tra calcio e politica, non tiene esattamente un atteggiamento equidistante. Anzi proprio recentemente il suo presidente, Gianni Infantino, ha partecipato a un seminario organizzato in Bahrain e dedicato proprio allo sviluppo del calcio in Palestina e delle possibilità che esso possa abbattere le barriere, dal titolo “Peace to prosperity” (quanto è ironico il potere, quando si mette d’impegno, vero?), nonostante le richieste del presidente della Federcalcio palestinese Jibril Rajoub di non partecipare a un tale meeting che in pratica voleva determinare il futuro del calcio palestinese senza la presenza dei palestinesi. Ma questo non è che l’ultimo atto di una serie di mancanze avute da Infantino nei confronti degli appassionati di calcio palestinesi e dei suoi atleti.
Infatti, dietro quell’atteggiamento pilatesco secondo cui “la FIFA non può risolvere problemi politici” si cela una pratica che non è esattamente quella della neutralità: basterebbe vedere l’accondiscendenza del massimo organismo calcistico internazionale nei confronti dei club degli insediamenti che continuano a giocare nel campionato israeliano come nulla fosse (mentre come ha fatto notare “Football Palestine” tramite i suoi account, la FIFA è stata molto più rigida quando la federazione russa nel 2014 voleva includere nel proprio campionato le squadre della Crimea). Ancora peggio quando, durante il Congresso della FIFA del 2017 di Manama, in cui si sarebbe dovuta trovare (per l’ennesima volta) una soluzione alle tensioni tra Israele e Palestina, la posizione di Infantino fu a dir poco quella di giocare al ribasso accontentandosi di una rivendicazione vaga per quello che riguarda la libera circolazione di giocatori, attrezzature e dirigenti all’interno dei territori (cosa che, come abbiamo appena visto, viene disattesa ugualmente) e, oltre al danno la beffa, fece spegnere il microfono di un avvocato palestinese durante il suo intervento, mentre parlava di costituzione, per motivi di tempo…
Proprio per questo sembra quantomeno fazioso per non dire fittizio l’interesse mostrato adesso in Bahrain per la situazione dei palestinesi, al fianco di potenti investitori arabi a tal punto da fargli ricordare che in Palestina ci sono venticinque campi di calcio per cinque milioni di persone, come si suol dire certi argomenti (o presenze) fanno tornare la vista ai ciechi. E allora che la facciano tornare fino in fondo, visto che forte di questa miopia, Israele da un lato prosegue la sua azione di sport-washing cercando di ripulire il proprio aspetto attraverso manifestazioni sportive (dalla partenza del Giro d’Italia agli Europei Under 21 di qualche anno fa), ma dall’altro perpetra la segregazione del popolo palestinese facendogli vivere un momento che dovrebbe essere di gioia e spensieratezza come quello dell’approccio allo sport, come una prosecuzione delle discriminazioni e della segregazione che questo subisce, nel calcio, come nel pugilato, o nel ciclismo (argomenti di cui vi abbiamo parlato in precedenza), e tutto ciò con la complicità di chi continua a sostenere che lo sport non deve intromettersi in queste situazioni, ma che di fatto avalla in maniera poco limpida la politica e le ragioni del più potente che può permettersi di dettare le regole del gioco a proprio a piacimento. Perché è bene ricordare che “chi non è da una parte o dall’altro della barricata, è esso stesso la barricata!”.
Giuseppe Ranieri