È vero, il Mondiale di calcio femminile francese è finito già da qualche settimana e le analisi tecniche sono state anche abbondanti, tante persone che prima snobbavano il calcio femminile hanno cominciato a ricredersi vedendo un percorso intrapreso che ha cominciato a portare i primi risultati. Naturalmente non ci riferiamo alle questioni da fatturato auspicate dalla FIFA, ma a dati magari passati in sordina che la dicono lunga su come stia crescendo l’intero movimento: ad esempio il fatto non proprio trascurabile che, se all’inizio della competizione su ventiquattro squadre solo otto erano allenate da donne, ai quarti di finale tra le otto superstiti ben cinque avevano una donna come ct.
Proprio per questo abbiamo pensato di parlarvi del profilo di quattro atlete che alle qualità sul rettangolo verde hanno abbinato quelle al di fuori dello sport.
AJARA NCHOUT
Una rete siglata in pieno recupero, a maggior ragione se riesce a regalare un’insperata qualificazione per la fase a eliminazione diretta diventando così l’idolo dei tifosi, è il sogno di chiunque giochi a calcio. Ed è proprio quello che è successo ad Ajara Nchout, quando al novantacinquesimo di Camerun-Nuova Zelanda ha depositato in rete il pallone servitole da Aboudi Onguene, realizzando la sua doppietta personale e regalando così la qualificazione alle “leonesse indomabili” (che sarebbero poi state eliminate agli ottavi di finale dall’Inghilterra, una delle favorite alla vittoria finale). Ma anche guadagnando così la giusta attenzione sulla crescita del movimento calcistico femminile in Camerun, proprio in contemporanea con una Coppa d’Africa al di sotto delle aspettative da parte della selezione maschile, allenata da Seedorf ed eliminata agli ottavi di finale dalla Nigeria, in un Paese in cui nonostante la recente istituzione di un’accademia per calciatrici che ha visto la luce lo scorso gennaio (al momento ne ospita circa una settantina, per la maggior parte provenienti dalle regioni più povere del Paese) nella capitale Yaounde, non è semplice per una ragazza giocare a pallone proprio come ci dimostra la sua vicenda personale.
La ventiseienne, che, dopo aver giocato negli Usa e in Svezia, adesso gioca in Norvegia nel Valerenga, è nata nell’ovest del Camerun da una famiglia musulmana che pur non opponendosi in maniera tirannica alla passione della giovane cercava di scoraggiarla, perché come la stragrande maggioranza dei propri connazionali vedeva il calcio come un affare prettamente maschile. Nonostante ciò, Ajara Nchout è diventata una delle punte di diamante della nazionale che il tecnico Alain Djeumfa ha praticamente disegnato intorno a lei, ma soprattutto è diventata una persona molto attenta alle istanze degli ultimi, finanziando orfanotrofi e programmi di reinserimento per i detenuti: «Non percepisco i detenuti come persone cattive; li vedo come persone che a un certo punto della loro vita prendono le decisioni sbagliate ma che possono che possono sempre migliorare. Credo che se loro, proprio come gli orfani o i diseredati, ricevono le giuste opportunità con una guida adeguata, allora possono fare grandi cose. Alla fine di tutto, devo usare l’opportunità che Dio mi ha dato per avere un impatto positivo sulla vita. Questo è anche il motivo per cui gioco, per incoraggiare gli altri a poter avere successo».
MARTA SILVA
Probabilmente il Brasile insieme all’Australia costituisce la più grande delusione del torneo, anche se a ben vedere, con la parziale eccezione del secondo posto ottenuto nell’edizione del 2007, la nazionale verdeoro non ha mai ottenuto risultati eclatanti in questa competizione.
Tuttavia la spedizione delle brasiliane verrà ricordata ugualmente e il merito è (quasi) tutto del suo numero dieci, la sempiterna Marta Silva, vera e propria icona di tutto il movimento calcistico femminile sia per quanto ha saputo realizzare in campo in quasi vent’anni di carriera, molti dei quali passati come calciatrice più forte in assoluto e che le hanno consentito di essere l’unica donna a essere presente nella walk of fame brasiliana al Maracanà (a fronte di centouno uomini), sia per le sue prese di posizione, sempre forti e mai banali, risultato di una vita in cui tutto quello che ha ottenuto se lo è preso con le unghie e con i denti. Ma andiamo con ordine.
Suo padre lasciò lei e i suoi quattro fratelli con sua madre quando lei aveva non più di un anno e mezzo, crebbe in un piccolo villaggio del nord-est del Brasile in cui era l’unica ragazza a giocare a calcio e per questo era osteggiata da tutti, soprattutto dai fratelli, in un Paese in cui, vale la pena ricordarlo, dal 1941 al 1979 per le donne giocare a calcio era illegale e in cui pochi anni fa il Santos decise di sciogliere la propria squadra femminile in modo da poter risparmiare soldi da offrire a Neymar per la sua permanenza.
La prima svolta fu quando a quattordici anni passò nelle giovanili del Vasco Da Gama ottenendo il sostegno economico necessario per poter proseguire quella che sarebbe diventata molto più di una semplice passione. A diciott’anni viene a giocare in Europa ottenendo risultati eccellenti che le fruttano il soprannome di “Pelè con la gonna”, ma soprattutto una sfilza di riconoscimenti individuali (viene premiata per cinque anni di fila, dal 2006 al 2010, col FIFA Women’s World Player e lo rivincerà una sesta volta nel 2018, a cui vanno anche aggiunti un Best Fifa Women’s Player e un Pallone d’Oro del mondiale), vince la Copa Libertadores e quella brasiliana, oltre a sette campionati svedesi e due statunitensi, ma con la nazionale inanella una serie di delusioni traducibili in due finali olimpiche e una mondiale perse, rispettivamente nel 2004, 2008 e 2007. Ma il suo motivo di vanto è l’essere diventata l’atleta ad aver realizzato più gol di tutti, diciassette, nelle fasi finali dei mondiali, staccando il tedesco Miro Klose grazie alla rete siglata contro l’Italia lo scorso giugno, traguardo che le è valso il riconoscimento di tantissime personalità sportive, e politiche del suo Paese e non solo… tranne Bolsonaro che ha fatto finta di nulla.
Ma oltre a uno score che parla da sé, l’importanza di Marta è enorme anche per quello che va al di là del calcio giocato: infatti ha rifiutato le offerte degli sponsor che pure non le erano mancate, perché ritenute eccessivamente inferiori a quelle dei colleghi delle squadre maschili, e lo ha fatto notare platealmente nell’esultanza del gol del momentaneo vantaggio contro l’Australia (col quale aveva temporaneamente raggiunto i gol di Klose), indicando i suoi scarpini sui quali c’era un nastro bicolore simbolo della campagna per la parità di genere “Go Equal” e che sembra stia raccogliendo i propri frutti visto che diverse federazioni stanno regolamentando norme per la parità di salario tra calciatori e calciatrici. Anche al termine della partita degli ottavi di finale persa per due reti a una con la Francia dopo i tempi supplementari, riesce a strappare attimi di immortalità con una video-dichiarazione destinata a rimanere nella storia del calcio femminile e a farle mantenere quell’aura di punto di riferimento per tutte le aspiranti calciatrici: «È così da sempre, dobbiamo prima piangere per poi sorridere alla fine. È così: ottieni di più, se ti importa di più, preparati a giocare 90 minuti e altri 30 minuti e quanti ne serviranno. Questo è quello che chiedo alle ragazze: non ci sarà una Formiga per sempre, una Marta, una Cristiane. Il calcio femminile ha bisogno di te per sopravvivere. Lo dico ancora una volta: piangi all’inizio per sorridere alla fine».
MEGAN RAPINOE
Alle prime esternazioni pubbliche di Megan Rapinoe sulla politica statunitense, il presidente Trump aveva risposto stizzito: «Pensi a svolgere al meglio il suo lavoro fino alla fine prima di parlare». Ecco, non si può dire che l’atleta non abbia rispettato alla lettera le parole del suo presidente, visto che ha portato la sua nazionale alla conquista del titolo, sbloccando la finale con un gol su rigore, inoltre si è aggiudicata il titolo di migliore marcatrice e quello di migliore calciatrice della kermesse… Mica male!
La carriera di Megan Rapinoe è sempre stata così, sopra le righe (tanto per dire, festeggiò il primo gol a un mondiale andando a prendere un microfono per cantare Born in the USA), ma allo stesso tempo con responsabilità e coscienza del suo ruolo, non avendo mai rinunciato a dire quello che pensa e prendere posizione, come quando alla vigilia della finale mondiale contro l’Olanda non le mandò a dire alla FIFA che a suo dire non ha avuto alcun rispetto per la competizione facendo disputare la finale lo stesso giorno di quella della Copa America e della Gold Cup (in cui era impegnata la selezione maschile degli USA) e più in generale per il calcio femminile, accusa che di fatto è diventata l’ennesima freccia scoccata dal suo arco nella battaglia per la parità di status (e di retribuzione) tra calciatori e calciatrici. Non sorprende quindi che proprio lei sia stata al centro di una querelle con Trump, ritenuto “sessista”, “misogino”, “meschino” e “razzista” e che ha avuto come culmine l’ormai celebre intervista in cui ha affermato che non aveva intenzione di andare «alla fottuta Casa Bianca», ma che comunque non si aspettava nessun invito ufficiale visto che Trump a suo dire non è solito invitare chi potrebbe contestarlo.
Laureata in Sociologia e Scienze politiche, omosessuale dichiarata dal 2012 (la prima a posare in costume da bagno per Sport Illustrated, per «cercare di destrutturare certi stereotipi»), attivista per i diritti LGBTQ, e partecipante alla campagna “Obiettivo comune” attraverso la quale diversi campioni dello sport devolvono l’1% dei loro ingaggi in iniziative benefiche, è stata in prima fila nel sostegno a Colin Kaepernick nella protesta simbolica durante l’esecuzione dell’inno nazionale, perché «come omosessuale americana, so molto bene cosa significhi guardare la bandiera e non sentire che protegge tutte le tue libertà», ha spiegato nel 2016. Più recentemente, in un forum, ha aggiunto: «Ho scelto di inginocchiarmi perché, vicino al mio hotel a Columbus, la notte prima di una partita contro la Thailandia, un ragazzo di 13 anni di nome Tyre King è stato ucciso da un agente di polizia. ho scelto di inginocchiarmi perché semplicemente non sopporto che il mio Paese opprima la sua stessa gente», a tal punto che la Federcalcio americana, per evitare emulazioni, ha aggiunto ai suoi regolamenti l’obbligo di «stare con rispetto durante la ricorrenza degli inni nazionali ad ogni evento rappresentato dalla Federazione».
Più di ogni altra ulteriore delucidazione sulla personalità della co-capitana della nazionale campione del mondo, basterebbe ascoltare il suo discorso a New York dopo la conquista del mondiale: «Dobbiamo essere migliori. Dobbiamo amare di più e parlare di meno. Dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno. Dobbiamo capire che è responsabilità di tutti. Certo, noi facciamo sport. Certo, siamo atlete donne, ma siamo anche molto più di questo. Siete tutti molto più di questo. Come possiamo migliorare la nostra comunità?».
MACARENA SANCHEZ
A voler essere pignoli e precisi, l’ultima storia che vi raccontiamo non è prettamente inerente ai mondiali, ma se la nazionale argentina è arrivata in Francia è stato anche grazie all’apporto di Macarena “Maca” Sanchez, così come è grazie a lei se in tanti in ogni angolo del pianeta si sono interrogati sulla questione del professionismo per quel che concerne il calcio femminile.
Tutto comincia nei primi mesi di quest’anno quando a conclusione di una polemica serrata con la propria società, l’Uai Urquiza (che negli ultimi sette anni ha vinto quattro volte il titolo nazionale), per via dei salari bassi per tutta la squadra, ad esempio la puntera argentina riceveva 400 pesos al mese, circa 11 euro, basti pensare che per la quasi totalità di loro lo stipendio era dato da lavori collaterali a quelli del calcio come ad esempio fare la segretaria nella sede del club o la donna delle pulizie e quindi senza poter neanche dedicarsi al 100% al calcio. “Maca”, che ha un tatuaggio di Frida Kahlo sull’avambraccio ed è da sempre in prima linea per i diritti delle donne, sposandone diverse campagne da quelle per l’aborto libero a quelle contro il femminicidio, viene messa fuori rosa. Per tutta risposta la calciatrice decide di denunciare la sua ex società e l’intera federcalcio argentina per dare una scossa a una situazione statica e che appariva senza uscita per le calciatrici argentine, in un momento tumultuoso per la nazione sudamericana, scossa sin nelle fondamenta dalle rivendicazioni del movimento femminista: «Nonostante il calcio sia lo sport più popolare in Argentina, le donne non possono praticarlo come professioniste. Società e Federazione non ci riconoscono come lavoratrici, così come non riconoscono i nostri diritti basilari. La nostra società continua ad essere retrograda e maschilista, i diritti delle donne sono costantemente violati e subiamo discriminazioni di ogni genere». Anche perché per le calciatrici argentine è praticamente necessario trasferirsi a Buenos Aires per poter praticare calcio a un livello accettabile, non tanto a livello economico, perché come ha rivelato in un’intervista prima del mondiale il centravanti della nazionale Belen Potasa «le calciatrici prendono meno di 100 pesos come bonus», che sono meno di due euro, ma perché solo il torneo che si svolge nella capitale è affiliato alla federcalcio argentina. La causa viene vinta e tre mesi dopo le viene fatto un contratto dal San Lorenzo, ma soprattutto la battaglia intrapresa dalla ventisettenne argentina travalica ben presto i confini nazionali, diventa un simbolo universale per il diritto al professionismo delle calciatrici femminili e nonostante abbia ricevuto anche pesanti minacce di morte per lei e la sua famiglia, sono stati tantissimi i messaggi di solidarietà da parte di personalità da tutto il mondo e la campagna comincia a dare i suoi frutti, poiché la Federazione ha deciso di finanziare con 120.000 pesos mensili le squadre al fine di aiutarle in questo passaggio epocale, così come anche Claudio Tapia, presidente federale, ha preannunciato la nascita di un nuovo torneo nazionale, “Futbol en Evolucion” che avrà la formula della Copa Argentina e vedrà la presenza di molte squadre storiche del calcio argentino come Boca Juniors, River Plate, Racing, San Lorenzo, Lanus, Independiente, Estudiantes eccetera. Inoltre ognuna delle 16 squadre che ne fanno parte, tutte della provincia di Buenos Aires, dovrà sottoscrivere un contratto professionistico ad almeno otto calciatrici; le calciatrici avranno diritto ad assistenza medica e i contratti dovranno avere una validità minima di un anno, fino ad un massimo di cinque.
Non sono altro che i primi passi verso una parità sostanziale, ma sembrano comunque molto spediti!
Giuseppe Ranieri