Dudley, Black Country, West Midlands. I dintorni di Birmingham, per capirci. La terra d’origine di Anthony Cartwright, e la terra che sintetizza al meglio questi tre decenni abbondanti di neoliberismo trionfante, avviato dalla signora Thatcher e innalzato nel tempo a unico modello di sviluppo possibile, stando alla narrazione ufficiale, quella di regime, comune praticamente a tutti i Paesi di quello che, almeno un tempo, si definiva “Occidente sviluppato”. E quindi quello che era un distretto minerario e industriale brulicante di ciminiere fumanti e di torme di operai che si susseguono nei turni massacranti, ma quanto meno si riconoscono un ruolo nel mondo, diventa un territorio dismesso, depresso, in cui la cenere e la polvere non si alzano più verso il cielo ma si posano sul tessuto urbano e sulla pelle delle persone, a formare una coltre fredda e grigia, che non lascia presagire nulla di buono.
Heartland (66thand2nd, 2013) esce in Inghilterra nel 2009, ma è ambientato nel 2002. Dieci anni dopo esce Il taglio (66thand2nd, 2019, ed. or. 2018), che invece racconta l’attualissima questione della Brexit che dilania il Paese. Leggere questi romanzi rende assolutamente plastiche le trasformazioni di un territorio, sia quelle reali, sia la percezione che ne ha un loro abitante, un proletario, che ne è diventato anche il cantore. Tra l’altro in mezzo c’è stato anche Iron Towns, di cui abbiamo parlato qui, che nonostante i toponimi di fantasia è sempre chiaramente ambientato negli stessi distretti.
Tra l’Inghilterra del 2002 e quella del 2018 le differenze sono enormi, fin troppo ovvio da dire. Ma il piano inclinato su cui rotolano le condizioni di vita delle classi meno abbienti è sempre lo stesso: durante le vicende raccontate in Heartland la “cura Thatcher” ha già ampiamente fatto il suo corso, ma ancora non si è abbattuto l’uragano della crisi finanziaria iniziata nel 2007. E infatti l’emergenza sociale che la fa da padrona non è di ordine prettamente economico: già, perché un anno prima si sono abbattuti due aerei sulle Torri Gemelle e uno sul Pentagono, e gli effetti di ciò sono arrivati in ogni angolo del mondo, figuriamoci in un distretto post-industriale con problemi occupazionali e un’immigrazione massiccia, in particolar modo di origine pakistana e quindi musulmana. L’aria che tira è quella dello scontro di civiltà, tra l’ascesa dell’estrema destra che cattura anche le simpatie di chi un tempo la pensava in modo diametralmente opposto, e la conseguente chiusura delle comunità immigrate sempre più in se stesse. A tutto ciò fa da sfondo il calcio, inserito nella narrazione con l’abile alternanza di tempi e luoghi tipica dell’autore. E così, lungo tutto il corso del libro, si dipana la partita del girone del Mondiale nippo-coreano tra Inghilterra e Argentina, proprio a ridosso delle elezioni comunali in cui lo scontro politico è ai livelli di guardia. Le sorti della nazionale, vista alla tv del pub, sono sì un momento di unione tra chi rimane fedele al credo laburista e chi ha seguito le sirene nazionaliste, ma non si smette di guardarsi in cagnesco. Ma quella che rischia di far scoppiare una guerra civile in miniatura è la partita decisiva del campionato amatori, tra la squadra locale in cui milita il mite protagonista Rob, assieme anche a vari novelli estremisti di destra, e la squadra della comunità pakistana legata alla moschea. Il contesto umano che ruota intorno a queste vicende è quello a cui l’autore ci ha sempre abituato: calciatori promettenti e poi falliti che faticano a dare un senso alla propria vita, donne con figli avuti troppo presto a cui la vita ha dato molti più schiaffi di quelli che meritavano, vecchi uomini politici locali generosi ma ormai pigri e sfiduciati, giovani rampanti arroganti ma mediocri. E tutti ricoperti dalla polvere metallica dell’industria in disuso.
Con Il taglio l’atmosfera cambia radicalmente, a partire dallo stile narrativo adottato dall’autore: mentre Heartland era un romanzo che lasciava molto spazio all’aspetto descrittivo, Il taglio è un libro breve, sincopato, in cui i concetti sono più densi e le parole pesano di più, a tratti ricorda quasi una pièce teatrale. E anche il Paese è cambiato, seppure sullo stesso piano inclinato cui si accennava prima: a farla da padrone è il dibattito sulla Brexit, che però sintetizza visioni del mondo, e punti di vista di classe, tipici della contemporaneità non solo oltre Manica, ma anche qua da noi. Cairo, ex pugile ed ex proletario di fabbrica, si è trasformato negli anni in un sottoproletario che vive di lavoretti saltuari e coltiva rancori sempre meno celati, e indirizzati in modo assolutamente vago. “Non se ne può più”, “devono andare tutti a casa”, “quelli là hanno tutto garantito e a noi non lasciano nemmeno le briciole”. Discorsi che sentiamo a ogni angolo di strada, e che nascono da un disagio reale, perché che le condizioni di vita siano peggiorate non è certo un’invenzione. Ma il bersaglio, “quelli là”, è fumoso e cangiante: le istituzioni politiche innanzitutto, quelle europee in seconda battuta, e poi gli immigrati, percepiti non si capisce bene in base a cosa come una categoria che gode di privilegi. Non più scontro di civiltà, ma becera guerra tra poveri. Eppure Cairo è uomo interessante e sensibile, non ha certo un’indole destrorsa e intollerante. Ma l’assenza di risposte a esigenze di drammatica concretezza genera scivolamenti mentali di questo tipo in una gran massa di persone. Grace invece viene da Londra e da quella middle class di cui alle nuove generazioni è rimasta più l’impronta culturale che il reale livello di benessere, che è in caduta libera nella giungla della precarizzazione del lavoro. Si trova a Dudley proprio per realizzare un documentario sulle cause del voto favorevole all’uscita dall’Unione Europea, e l’attitudine, anche se involontaria, è un po’ quella dell’esploratrice che va a scoprire le bestie nella savana. Grace è quella che percepisce i problemi e le contraddizioni, è anche lei persona sensibile e attenta, ma pensa ancora che la giustizia sociale sia possibile all’interno di questo sistema, che un capitalismo dal volto umano sia possibile e desiderabile, se solo le istituzioni fossero un po’ più attente. E se solo questi dannati proletari fossero meno ignoranti e intolleranti. Già, se solo.
Un’attrazione forte, ma un amore impossibile. Una sintesi perfetta della situazione in cui si trovano le periferie di tutto l’Occidente, con gli ultimi che si fanno la guerra con i penultimi, incapaci tutti quanti di riconoscere il vero nemico, che intanto se la ride di gusto. L’élite politico-economica, la classe dominante, che ha infilato le mani nelle tasche sia dei Cairo che delle Grace, ma è riuscita nel miracolo di far addossare a loro, vicendevolmente, le colpe. Perché per Cairo sono le Grace a essere “élite”, e per Grace sono i Cairo a essere causa del proprio male e anche di molti dei mali della società.
In definitiva, Il taglio è il libro più cupo di Cartwright, non tanto nello svolgimento della narrazione ma nelle prospettive di evoluzione sociale. Il capolavoro di Thatcher e successori è compiuto, le vittime di questo modello di sviluppo non sanno più nemmeno riconoscersi tra di loro, figuriamoci organizzarsi e lottare. Ma a questo autore va un ennesimo ringraziamento, per l’amore autentico verso la propria terra e la gente che l’ha abitata, la abita e l’abiterà. Un amore che non ha bisogno di ostentazioni liriche o stucchevoli beatificazioni dei poveracci di stampo pasoliniano. E allo stesso tempo, il fatto di essere un reale abitante di Dudley tiene alla larga l’autore da stigmatizzazioni moraliste tipiche di chi guarda “da fuori”. Semplicemente, Cartwright racconta la sua gente, la fa parlare di persona, dà voce alle condizioni reali, fa sentire ciò che davvero si dice, e non quello che si vorrebbe sentir dire, per strada. Per una narrativa di stampo sociale che sappia risvegliare una sincera curiosità e una voglia di confrontarsi con le mille contraddizioni del nostro presente, servirebbero un centinaio di Cartwright sparsi in giro per tutta Europa.
Matthias Moretti