«C’è un uomo solo al comando, veste la maglia bianco azzurra e il suo nome è Fausto Coppi!». Questa frase, pronunciata dal principe dei radiocronisti Mario Ferretti, è entrata a pieno titolo nella nostra storia collettiva, sportiva e non: come il «clamoroso al Cibali!» e anche di più, ha varcato la soglia della nostra storia sociale e della psicologia collettiva. Perché oltre a essere uno dei ciclisti più vincenti della storia, protagonista della rivalità più celebre e allo stesso tempo totalizzante del ciclismo italiano e non solo, il primo a fare l’accoppiata Giro d’Italia - Tour de France, capace di imprese impensabili, Fausto Coppi rappresentava tutto il Paese in uno dei momenti più nevralgici della nostra storia recente, quello a cavallo della Seconda guerra mondiale, a cui egli prese parte venendo anche catturato dagli Alleati in Tunisia; la miseria della vita contadina, la speranza, la rinascita quando tutto sembra già essere delineato in maniera avversa.
Come nel suo secondo Tour de France vinto, quello del 1949, quando dopo le prime cinque tappe aveva quasi trentasette minuti di ritardo dal battistrada, ma anche nella tappa tra Briançon e Aosta (quella fu la prima edizione in cui la Grande Boucle uscì dai suoi confini nazionali) in un focolaio di tensione etno-linguistica mai così alto da quelle parti: d’altronde l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia invadendola solo nove anni prima, e gli abitanti locali sputavano e ingiuriavano sui corridori italiani, ma ciò non bastò a farlo demordere dato che vinse la tappa, una tappa epica nella quale Coppi rallentò dopo la caduta di Bartali quasi per aspettarlo, e in cui il campione francese Robic si presentò alla corsa con un casco da motociclista.
E poi il trionfo, come quando a Lugano vinse il campionato mondiale su strada (l’ultimo alloro che mancava a un palmares a dir poco invitabile) davanti a migliaia e migliaia di nostri connazionali che organizzarono una dozzina di treni speciali e torpedoni per assistere alla vittoria del Campionissimo che dedicò la vittoria proprio a loro e al ritrovato orgoglio nazionale, questa volta depurato di accenti sciovinisti e guerreggianti, perché era proprio sulle ruote tanto leggere quanto feroci dei nostri ciclisti più forti che il Paese si rivedeva: il calcio ancora stentava a riaffermarsi, perché ancora impegnato a togliersi le scorie dell’abbraccio mortale del precedente regime defunto, e solo la tragedia di Superga gli restituì un rapporto privilegiato col popolo italiano. La forza di resistere agli scherzi del destino come quello di vedere suo fratello Serse morto per un’emorragia cerebrale in seguito a una caduta dalla bicicletta durante una corsa in Piemonte nel 1951, e allo stesso modo il coraggio di sfidare un senso comune troppo borghese e benpensante capace di non perdonargli mai le sue scelte nella vita privata, come quando si innamorò di Giulia Occhini, colei che fu soprannominata dai giornalisti “La dama bianca”, che gli diede un figlio e con cui diedero vita a un amore adultero che gli costò la riprovazione dell’opinione pubblica italiana intrisa ancora di una morale cattolica conformista e doppia, oltre che una condanna per abbandono del tetto coniugale, tant’è che per vedere riconosciuto il loro amore furono costretti ad andarsene in Messico.
Vincitore di ben 151 gare su strada, di cui 81 per distacco, tra cui cinque volte il Giro d’Italia e due volte il Tour de France, 4 Giri di Lombardia, 3 Milano-Sanremo, i campionati del mondo strada e pista (inseguimento) e il record dell’ora, Coppi è stato in grado di regalare momenti di sport esaltanti e inscalfibili dall’incedere del tempo ma anche delle vere e proprie “perle” da parte di chi si trovava a commentare le sue gesta, come quando al termine della Milano-Sanremo del 1946 (stra)vinta da Coppi il radiocronista Rai Nicolò Carosio annunciò così la sua vittoria: «Primo Fausto Coppi. In attesa del secondo, trasmettiamo musica da ballo». Ma probabilmente il suo capolavoro fu la tappa del 10 giugno del 1949 da Torino a Pinerolo dove dopo una fuga solitaria di 192 chilometri, durante la quale dovette fare i conti con ben cinque forature, mise le mani sul Giro d’Italia arrivando primo con ben dodici minuti di vantaggio su Gino Bartali.
Proprio con quest’ultimo diede vita a una rivalità fiera e tenace che assorbiva totalmente la popolazione italiana pronta a identificarsi con l’uno o con l’altro quasi in maniera manichea, forse anche per alcune interpretazioni forzate che volevano Coppi “comunista”, probabilmente per via della sua condotta personale capace di sfidare il bigottismo del senso comune dell’epoca per scegliere l’amore della sua vita con Giulia Occhini, la “dama bianca”, che non gli fu mai perdonata dall’opinione pubblica, in contrapposizione al Bartali beniamino dell’Azione cattolica. Adesso, grazie a diversi studi, sappiamo che anche Coppi, nel frattempo soprannominato “l’Airone” dai francesi, sebbene fosse meno tradizionalista e più aperto al cambiamento e al progresso tecnologico nel ciclismo di Bartali, con la riservatezza che lo ha sempre contraddistinto, votava per la Democrazia Cristiana pur non essendosi mai schierato pubblicamente. Ma come sappiamo bene, spesso la fama e l’aura di un uomo si costruiscono a prescindere dalla sua volontà, soprattutto in momenti di forte contrapposizione come quello dell’immediato dopoguerra in cui l’area progressista aveva bisogno di trovare un antagonista al “Pio Gino” simbolo della Dc. In quel momento i tifosi si appellavano come “coppiani” o “bartaliani”, con la stessa convinzione con cui nei decenni successivi si sarebbe professata la fede calcistica, dando così una totale centralità al ciclismo all’interno del movimento sportivo italiano; anche perché in quel momento non c’era nulla che riuscisse a rappresentare meglio la voglia di ripartire e di trovare “unità nelle differenze” di cui era intrisa quell’Italia. Riuscirono a essere differenti pure all’interno di tragedie che li accomunarono come il fascismo, al quale nessuno dei due aderì, e la Seconda guerra mondiale: Bartali prestò servizio militare in Italia, e sotto la camicia nera che detestava riusciva a imboscare documenti per salvare centinaia di ebrei italiani mentre percorreva giornalmente la strada tra Firenze e Assisi, mentre Coppi partecipò come fante della Divisione Ravenna alla campagna del Nord Africa, conobbe una lunga prigionia e non poté pedalare seriamente per molto tempo: dopo essere scampato alla morte grazie a un militare ligure che lo riconobbe e gli impedì di partecipare a una spedizione dalla quale non tornò nessuno, Coppi venne comunque fatto prigioniero nell’aprile del ’43, per fortuna in modo non cruento. Diventò così un Pow (Prisoner of War) e nel 1944 tornò in Italia al servizio degli Alleati, nel campo Raf di Caserta, diventando autista di camion grazie a un corso seguito mesi prima.
Ad ogni modo entrambi furono eletti come simboli della rinascita nazionale e della depurazione dal fascismo (motivo per cui a Fiorenzo Magni, “il leone delle Fiandre” che all’epoca veniva considerato come “terzo incomodo” tra Coppi e Bartali, non fu mai perdonata l’adesione entusiasta al regime). Anche perché nonostante le notevoli differenze, sia di età (agli inizi della sua carriera Coppi fu gregario di Bartali, nel Giro del 1940, ma un infortunio del corridore toscano ribaltò le gerarchie di squadra, la Legnano, e proprio Coppi vinse la “corsa rosa”; poi la vittoria del Campionissimo al Giro di Toscana, sulle strade di casa di Bartali, diede il via alla rivalità tra i due), sia di temperamento dovuto forse alle rispettive provenienze geografiche: toscano e dissacrante Bartali, piemontese schivo e riservato Coppi, sono stati anche protagonisti di atti di solidarietà e amicizia, come dimostra la famosa foto della borraccia del Tour de France del 1952, in cui non si capisce bene chi dei due passi l’acqua all’altro e nasce uno dei più grandi segreti del ciclismo. Ma non fu l’unico di tanti momenti in cui si alternava la fiera rivalità alla solidarietà, fino al ritiro del corridore toscano che nel 1959 divenne direttore sportivo e non poteva che scegliere Coppi come capitano della sua squadra. Purtroppo questa collaborazione durò poco, perché alla fine dello stesso anno il piemontese durante un’esibizione in Alto Volta contrasse la malaria che lo uccise nei primissimi giorni dell’anno successivo, anche per via delle cure non tempestive. Al suo capezzale, a dimostrazione di quanto detto, c’era anche Bartali, mentre ai suoi funerali nella sua Castellania c’erano oltre 50.000 persone che lo condussero definitivamente nel pantheon degli eroi sportivi e non solo del nostro Paese, nel quale ancora adesso, a un secolo dalla sua nascita, si narrano le sue gesta, anche perché prima di far nuovamente appassionare il Paese a un ciclista in modo simile sono dovuti passare quasi quarant’anni.
Giuseppe Ranieri