Era sin da quando fu preannunciata la sua uscita che aspettavo l’occasione adatta per vedere Istanbul United, e pur non essendo potuto andare all’Offside Film Festival per colpa del lavoro ho sottoscritto l’abbonamento in modo da poter vedere ugualmente questo docufilm, insieme ad altri prodotti di pregevole qualità. Senza alcun dubbio o tentennamento posso affermare che l’attesa non è stata delusa, il film infatti è l’ideale per chi è appassionato del mondo ultras e del suo corollario di scontri, delle proteste di piazza e di ogni loro potenziale intreccio.
Quasi un’ora e mezza da guardare senza pause e senza la paura di annoiarsi, per quella che a tratti sembrava una via di mezzo tra un episodio di Curve Infuocate e uno dei diversi documentari di movimento autoprodotti, in alcune parti somigliante a quelli riguardanti la Val Susa per la dimensione comunitaria, collettiva e a tratti agreste durante “l’accampata” a Gezi Park, mentre in altri istanti, con un po’ di fantasia, sembrava la Piazza San Giovanni di quel famoso 15 ottobre, con riprese direttamente dal cuore della rivolta. Infatti, attraverso diverse voci, si compenetrano la descrizione della quotidianità e dei tratti distintivi delle tre tifoserie della megalopoli turca, dalla spiegazione dell’essenza di ogni club all’organizzazione delle attività curvaiole quotidiane del gruppo, col racconto di quei giorni della tarda primavera del 2013, quando una città come Istanbul, dalle molteplici identità presenti e passate e ponte tra differenti continenti e civiltà si è riscoperta unita e compatta come non mai per insorgere contro il progetto di Erdogan e del suo partito di sfigurare permanentemente quello che fino ad allora era il centro della sua vita civile e pubblica, la sede designata da cui partivano le grandi manifestazioni, ma allo stesso tempo anche il posto in cui i tifosi andavano a festeggiare le vittorie delle rispettive squadre. Un luogo di tutti, per tutti e quindi difeso da tutti, anche dalle stesse tifoserie, capeggiate dai rispettivi gruppi ultras che si approcciano e giungono alla decisione di mettersi in gioco in piazza attraversi percorsi differenti, come d’altro canto lo sono anche i rispettivi background: laici, borghesi e filo-europei quelli del Galatasaray, popolari e asiatici quelli del Fenerbahce ed essenzialmente antisistemici con fortissime venature anarchiche o in ogni caso antagoniste quelli del Besiktas, i primi a prendere posizione rispondendo alla loro vocazione prettamente ribelle; e pazienza se il satrapo Erdogan ha cercato fino all’ultimo di demonizzare questa presenza arrivando a definirli capulcu, cioè sciacalli intenzionati a destabilizzare il Paese, la storia ha già deliberato.
Così come per tutti gli altri, anche per gli ultras la scelta di manifestare il proprio dissenso contro lo smantellamento di Gezi Park non è stata pianificata ed è avvenuta in maniera spontanea, per di più tra lo stupore generale della gente comune che mai avrebbe potuto immaginare di vedere gli acerrimi rivali di sempre siglare una tregua e marciare fianco a fianco per un bene comune, mettendo da parte l’odio atavico per diventare “la cavalleria” di difesa dei manifestanti comuni, fino ad allora alla merce’ della feroce polizia turca, e dare quel “tocco di professionalità” alla rivolta che ha fatto fare il definitivo salto di qualità del conflitto, perché a ogni latitudine è legittimo e corretto avere un pieno controllo dal punto di vista teorico, ma nulla rassicura e rinfranca di più che sapere di avere dei cordoni composti da gente decisa ed esperta a difenderti dai lacrimogeni e dai manganelli che non fanno più paura come si evince da uno dei cori diventato inno della protesta: “Buttate giù l’elmetto, via i manganelli, venite a colpirci coi vostri lacrimogeni e vedremo chi comanda!”.
Si può affermare che il coinvolgimento degli ultras abbia segnato un salto di qualità sia per quello che concerne la protesta, ma anche per le coscienze degli stessi tifosi che nonostante la sconfitta sul campo patita a opera dei reparti speciali della polizia turca, hanno realizzato che opporsi a quel mix di politiche neoliberiste e ultra-autoritarie portate avanti da Erdogan e dal suo partito, non solo per quel che concerne lo stadio (in cui comunque da allora le giornate di Piazza Taksim e i suoi martiri vengono ricordati indistintamente da tutte e tre le tifoserie attraverso cori), ma anche in altri ambiti della vita quotidiana turca, è possibile e necessario, come hanno dimostrato le successive ondate di protesta che hanno attraversato il Paese della mezzaluna con alterne fortune.
Sicuramente, uno degli esercizi che verrebbero spontanei ai più dopo la visione di questo bel docufilm è un paragone con la scena ultras italiana e la sua pressoché totale assenza di argomentazioni e prospettive conflittuali extracalcistiche, sottolineando in maniera tanto superficiale quanto banale la differenza tra quanto avvenuto a Istanbul e tutte le inchieste giudiziarie e più in generale i sospetti di malafede che colpiscono i principali gruppi del panorama italiano, ma ciò non sarebbe altro che l’ennesimo esercizio sterile di riproposizione di luoghi comuni su ciò che non si conosce, anche perché a parte la visione parziale che può offrire un documentario, non c’è nulla che ci impedisca di pensare che anche nelle curve turche possano esserci degli ultras a scopo di lucro. Intendiamoci, nessuno intende fare una difesa d’ufficio delle curve nostrane e spesso anche dalle nostre pagine abbiamo preferito non commentare tante derive, per non generalizzare, per rispetto di chiunque porti avanti anche singolarmente istanze genuine in contesti infetti e forse irrecuperabili, perché è da questo mondo che veniamo e abbiamo la presunzione di pensare di conoscere e comprendere alcune dinamiche interne che a tanti potrebbero sembrare inafferrabili. E poi, volendo ribaltare i fattori, forse c’è più differenza tra le articolazioni del movimento turco e quello italiano che tra i rispettivi curvaioli, tant’è che anche questi ultimi potrebbero muovere gli stessi appunti ai primi, a dimostrazione del fatto che ci troviamo di fronte a due contesti, l’Italia e la Turchia, imparagonabili, per storia, tradizione e fase politico-sociale attuale; pertanto l’unica indicazione verosimilmente valida è che a ogni latitudine in cui vanno ad annidarsi le nubi del conflitto, la presenza di chi a questo conflitto ci è abituato e ci sguazza dentro è necessaria per avere possibilità di riuscita, com’è già stato in passato quando in tante occasioni le felpe diabolik dei differenti gruppi erano in bella mostra nelle prime file dei cordoni.
Giuseppe Ranieri