L’ormai sempre più vasta letteratura calcistica ha dedicato ampi capitoli alla fenomenologia del derby, all’esplicazione dei concetti che esso racchiude e al manicheismo che ne è alla base, perché, è inutile negarlo, questo tipo di sfide costituiscono il sale del calcio e più queste sono sentite, più attirano l’interesse degli appassionati, oltre che sprigionare allo stesso tempo quel senso di appartenenza al proprio campo e di avversione a quello “nemico”, una vera e propria weltanschauung. Tutta roba che in epoca di finanziarizzazione selvaggia del calcio diventa sempre più rara da trovare come i rinoceronti bianchi, ormai prossimi all’estinzione.
Eppure, nonostante in questi giorni gli occhi di tutti i calciofili e di coloro che in questo sport cercano di trovare implicazioni sociali e culturali, fossero rivolti verso l’Europa, dall’esultanza della nazionale turca, al caos di Sofia, passando per la netta presa di posizione di Pep Guardiola in seguito alle condanne comminate ai leader indipendentisti catalani, a migliaia di chilometri di distanza andava in scena un incontro storico, un derby che definire sentito è estremamente riduttivo, anche perché a dividere i due contendenti c’è davvero una visione differente della vita, della storia e del modo di produzione, addirittura anche un parallelo, il trentanovesimo per la precisione e, dettaglio non esattamente trascurabile, le due nazioni in questione sono ancora formalmente in guerra da oltre sessant’anni. A Pyongyang, per le qualificazioni ai prossimi Mondiali del 2022 in Qatar, si affrontavano la Corea del Nord e la Corea del Sud, per una partita che non sarebbe mai potuta essere come qualsiasi altra.
Principalmente perché, come già sottolineato, i due paesi sono ancora formalmente in guerra, poiché dopo il conflitto che durò dal 1950 al 1953 e che coinvolse i principali attori internazionali (l’URSS e la neonata Repubblica Popolare Cinese a spalleggiare Pyongyang, mentre gli Stati Uniti in piena Dottrina Truman parteggiavano per Seoul) causando oltre due milioni di morti, fu siglato un armistizio, ma non fu mai ratificato un vero e proprio trattato di pace, come testimoniano le tensioni che ciclicamente ricompaiono nell’area e che affollano le agenzie di stampa internazionale insieme a notizie a dir poco bizzarre (e mai verificate) sul governo di Kim Jong Un. Di conseguenza Pyongyang non accetta mai di buon grado vedere sventolare la bandiera del Sud e ascoltarne l’inno; infatti ha ospitato questo match solo in un’altra occasione, per giunta un’amichevole, nel 1990 che vide la formazione di casa sconfiggere per la prima e unica volta i rivali per due reti a uno, mentre di solito gli incontri tra le due formazioni si svolgono o nella parte inferiore della penisola coreana o in campo neutro, come nell’ultimo caso nelle qualificazioni dei mondiali del 2010, quando le due squadre si affrontarono a Shangai.
Certo, ci sono stati dei passi in avanti nel corso degli anni e anche noi li abbiamo documentati ai tempi delle ultime Olimpiadi invernali di Pyeongchang con la nazionale di hockey femminile che di fatto era mista (potendo contare dodici atlete nordcoreane) e con l’esposizione della bandiera della Corea unita durante la cerimonia inaugurale (come era già successo in precedenza a Sydney 2000, Atene 2004 e Torino 2006); ma si sa, il calcio fa sempre storia a sé, è lo sport più seguito dalla popolazione nordcoreana e anche il governo ci punta molto, come d’altro canto avviene in diversi paesi che cercano di riaffermare o di spingere sempre più in là gli steccati della propria legittimazione ideologica; ma che di fatto rappresenta una brutta gatta da pelare se tutti i pronostici ti danno per sconfitto in partenza: la Corea del Sud occupa la trentasettesima posizione nella graduatoria FIFA con diversi giocatori di livello internazionale come Son Heung-min, stella del Tottenham, mentre quella del Nord solo la centotredicesima, nonostante la sua giovane promessa Han Kwang abbia recentemente firmato con la Juventus.
Sarà forse per evitare un’onta per tutto il popolo nordcoreano che è stato decretato che la partita si giocasse senza pubblico nonostante la presenza di Infantino, e che non fosse nemmeno trasmessa in TV (era possibile seguire il risultato sui siti ufficiali della FIFA e della Asian Football Confederation) e a quanto sembra (il condizionale quando ci si riferisce alle notizie riportate dalla stampa occidentale sulla Corea del Nord è sempre d’obbligo, come dimostrano i tanti abbagli presi negli anni dalla stampa nostrana), alla delegazione ospite non era consentito portare con sé i prodotti della Apple e della Nike; gli stessi per arrivare a Pyongyang sono dovuti prima passare da Pechino per prendere il visto necessario.
Nonostante il mistero abbia avvolto questa partita, così come ogni cosa che avviene in quello che in sede internazionale viene definito “il paese eremita” (che evidentemente non gode degli stessi buoni uffici di Seoul, con cui l’opinione pubblica occidentale si è dimostrata sempre indulgente) l’incontro si è concluso con un pareggio senza reti: il muro eretto dal mister Yun Yong-Su ha retto alla forza d’urto dei ben più quotati ospiti guidati da Paolo Bento che nonostante abbiano premuto sull’acceleratore per tutto il match hanno trovato nel portiere nordcoreano An-Tae Song, che alla fine si è rivelato il migliore in campo, un ostacolo insormontabile, consentendo così a entrambe le formazioni di restare appaiate in testa alla classifica del girone H con sette punti (la Corea del Sud ha però una migliore differenza reti).
Uscendo dalla sfera agonistica, il fatto di aver disputato a porte chiuse questo match è stato sicuramente un vero peccato per chi avrebbe voluto assistere a una prova d’orgoglio della propria squadra, nettamente sfavorita sulla carta, o per chi avrebbe voluto seguire i propri beniamini in una trasferta a dir poco ostica, a prescindere dalle presunte dichiarazioni di terrore di qualche giocatore sudcoreano riportate dai media occidentali, ma non confermate da nessuna testata di Seoul, perché se magari non riesce a creare i ponti che noi vorremmo, e che ci auguriamo si formino prima o poi, il calcio resta comunque ideato e fatto per essere uno spettacolo il più inclusivo possibile e le autorità di Pyongyang hanno trasformato un pareggio che sapeva di impresa in una sconfitta.
Giuseppe Ranieri