Nel 1949, alla periferia della capitale libanese di Beirut, iniziò la costruzione del campo profughi di Shatila per dare un rifugio a migliaia di palestinesi in fuga dalla repressione sionista in Israele. Oggi, anche a causa dell'alto numero di rifugiati sfuggiti dalla guerra in Siria, circa 25.000 persone vivono in questo campo grande appena un chilometro quadrato.
In questo contesto undici ragazze tra i 15 e i 20 anni, nate e cresciute a Shatila, sono riuscite a conquistarsi il proprio spazio di libertà sul campo giocando a basket, grazie alla polisportiva Real Palestine Youth F.C. fondata da Captain Majdi, anche lui rifugiato palestinese. In un ambiente come quello di Shatila lo sport assume un ruolo fondamentale, aiutando gli adolescenti ad adottare uno stile di vita sano e positivo, fornendo loro gli strumenti necessari a prendere il controllo delle loro vite e incoraggiandoli ad analizzare con occhio critico le questioni sociali che li riguardano.
Basket Beats Borders (BBB) è un progetto lanciato nel 2017 a Roma e a Beirut che vuole dare visibilità a questa situazione drammatica dimenticata da tutti. Pochi giorni fa dalla stessa Shatila sono tornati alcuni rappresentanti di tre squadre di basket popolare romano: gli All Reds Basket dell'Acrobax, le ragazze della polisportiva dell'Atletico San Lorenzo e Les Bulles Fatales del CSOA Ex Snia.
Questa appena conclusasi è la quarta edizione del progetto. Le prime due si sono svolte a maggio 2017 e a giugno 2018 a Roma; la terza, invece, si è tenuta a giugno 2019 nei Paesi Baschi.
Di seguito pubblichiamo il comunicato che coloro che sono stati a Shatila ci hanno inviato.
È passato ormai qualche giorno da quando la carovana romana di “BBB” (Basket Beats Borders) è tornata a Roma, dopo sei intensissimi giorni in Libano. Più precisamente a Shatila, un campo profughi palestinese ai bordi della capitale Beirut. Un nome che tutti i militanti conoscono, se non altro per il tragico massacro del 1982 compiuto da milizie maronite con la complicità dell’esercito israeliano, durante la guerra civile libanese.
A comporre la delegazione c’erano le ragazze dell’Atletico San Lorenzo, gli All Reds Basket, Un Ponte per... e Sport Against Violence. È il terzo viaggio “sponsorizzato” dal progetto BBB, ma stavolta, a differenza delle occasioni precedenti, sono state le squadre romane a sorvolare il Mediterraneo e raggiungere le ragazze del Real Palestine Youth FC (che, malgrado il nome, è una polisportiva che ospita, tra le altre, anche una squadra di basket femminile). Anche a distanza di giorni, l’emozione resta forte. «Sono ancora un po’ frastornato» ci dice Luca, capitano e stella degli All Reds: «Siamo tornati alla vita di tutti i giorni, i viaggi da e per l’ufficio, i colleghi che si lamentano delle loro vite… Tutto naturale e anche giusto, ma sembra ancora fuori posto…». «È una realtà che si studia – gli fa eco Peppe, uno dei membri più “anziani” della squadra legata ad Acrobax – ma che non si può capire davvero, senza vedere con i propri occhi. Siamo stati meno di una settimana in Libano, e abbiamo passato circa 48 ore nel campo di Shatila. Quel campo ci è rimasto addosso. E pensate che c’è gente magari vicina ai settant’anni che ci è nata dentro. Esiste dal 1948. Ci sono intere generazioni nate “profughe”».
Non deve essere stato facile stare in un posto simile, progettato per ospitare 3mila persone e arrivato a contarne 30mila. È un vero e proprio quartiere, a pochissima distanza dal centro supermoderno di Beirut, dagli appartamenti sul lungomare, dai ristorantini. «È un posto che sembra abbandonato, ma contemporaneamente brulica di persone», continua Luca: «Strade strettissime, palazzi autocostruiti anche di sei, sette piani. Cavi elettrici passati dove capita, spazzatura a ogni angolo, corrente che va e che viene in continuazione, acqua salata dai rubinetti». Una situazione da cui è impossibile scappare, per i 500mila rifugiati palestinesi in Libano: «Ci sono negozi di ogni tipo nel campo, dal fruttivendolo al dentista, dal sarto al semplice bar. Ma fuori dal campo ai palestinesi sono interdetti 42 mestieri, praticamente tutti: restano solo muratori o facchini. E chi vuole mettersi in proprio deve depositare 7000 dollari americani in banca, oltre ad assumere almeno due libanesi per ogni palestinese. Praticamente non hanno possibilità di uscire». Una discriminazione che si allarga anche allo sport, come spiega ancora Peppe: «C’è una situazione molto particolare: in quanto rifugiati palestinesi, non possono affiliarsi ai campionati libanesi; in teoria, sostengono le federazioni locali, potrebbero disputare i campionati palestinesi, ma è abbastanza ovvio che non possono. Gli sono precluse tutte le competizioni ufficiali, in qualsiasi sport. Questa è una violenza vera e propria». «E questa – sottolinea Luca – dovrebbe essere una richiesta immediata da inoltrare agli organi sportivi internazionali. È assurdo, e basterebbe pochissimo per risolverlo».
Sovraffollamento, disoccupazione, povertà: Shatila sembra un inferno. Da cui si cerca una fuga, anche illusoria: «Il campo – sottolinea Peppe – è la più grande centrale di spaccio del Libano, anche i libanesi vanno lì per acquistare droghe di ogni tipo. Se ne vende, e se ne consuma molta: è una piaga drammatica. Del resto, i due terzi degli abitanti del campo sono sotto i vent’anni. E non possono lavorare. La droga, sia venduta sia consumata, sembra l’unico modo per scappare da lì. Alcuni dei compagni che sono venuti con noi erano stati diverse volte in Palestina, a Gaza, avevano visitato altri campi. Nessuno di loro aveva mai visto una situazione simile».
Ma non è, ovviamente, tutto nero: c’è anche chi cerca di combattere questa situazione, di dare una possibilità o anche solo un momento di svago. Come, nel suo piccolo, cerca di fare il progetto “Basket Beats Borders”. Come spiega Luca, «il progetto è nato dall’incontro fra coach Majdi e due ragazzi italiani che lavorano con le ong, David e Daniele. Uno di loro aveva alcuni contatti con la nostra squadra e ci ha tirati a bordo». La prima volta, due anni fa, si trattava di fare da “ciceroni” per Roma alle ragazze, in gran parte al loro primo viaggio: «Immaginate cosa può essere, per un profugo palestinese, ottenere un visto turistico per l’Italia!», esplode Peppe. «Per fortuna – continua – ce l’hanno fatta, e abbiamo potuto ospitarle. Hanno visitato il nostro campo, quello dell’Atletico, si sono allenate con le Bulles Fatales… Poi, per completare il programma, “turismo politico” – con visite a diversi spazi occupati romani – e anche cene, visto che volevamo che tutto fosse come una festa». L’anno successivo si è replicato, e al termine dello scambio le ragazze di coach Majdi hanno dato appuntamento a tutti e a tutte per l’anno successivo, a Beirut. «Un viaggio non semplice – continua Peppe – ma c’è stato entusiasmo da subito». Tutto era pronto, lo scorso agosto. Ma la carovana romana non aveva fatto i conti con Bibi Netanyahu e soprattutto con le elezioni israeliane: «Netanyahu, per le scorse elezioni, ha cercato di mostrare i muscoli, di presentarsi come condottiero militare e uomo forte», spiega Luca; «droni israeliani, pochi giorni prima della nostra partenza, avevano violato lo spazio aereo libanese, arrivando fino alla periferia di Beirut. Uno è stato abbattuto da Hezbollah, un altro è precipitato danneggiando la sede dell’ufficio stampa del partito dei miliziani. La situazione era molto tesa, e in quel momento ci sarebbe stato praticamente impossibile svolgere un qualsiasi programma normale. Non che poi sia andato tutto liscio neanche dopo…». Il riferimento (amaro) è ai moti di piazza contro il carovita scoppiati a Beirut e in tutto il Libano proprio la sera del loro atterraggio, con due morti e decine di feriti, che ancora sono in corso. Il Libano del resto è uno dei Paesi più disuguali del mondo, con concentrazioni di ricchezza insopportabili e una povertà dilagante, oltre a una composizione etnico-religiosa potenzialmente esplosiva. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Tornando al gruppo di BBB, gli obiettivi erano diversi, come spiega Peppe: «Intanto volevamo vedere come stava venendo su il centro aggregativo-sportivo che abbiamo contribuito a costruire. Tutta la squadra, quando l’abbiamo incontrata la prima volta, diceva che nel campo mancava uno spazio dove svolgere attività, anche solo per stare insieme. Serviva uno spazio che non fosse solo per lo sport, ma per tutta la comunità. E siamo riusciti a realizzarlo, manca poco a finire i lavori: una palestra, ma anche spazi per corsi di lingua, di alimentazione e cucina, di autodifesa… Hanno creato un’associazione che si occuperà di gestirlo, è importante». Ma ovviamente non sono partiti solo per verificare l’avanzamento dei lavori: «Era importante capire la loro vita. Non tanto per fare i “turisti della democrazia”, quanto per capire meglio quali siano i loro bisogni e quindi poter indirizzare meglio la nostra attività di sostegno. Una volta si sarebbe detto “solidarietà attiva”». Gli fa eco Luca: «È stato importante condividere la loro quotidianità, anche se per poco. Ed è stato ancora più importante portare una solidarietà tangibile, che potessero vedere e sentire. Fargli sapere che qualcuno condivide e supporta la loro lotta, che non sono soli. Mentre camminavamo per le stradine ci fissavano tutti, si avvicinavano i bambini per darci il cinque con le mani, i giovani fermavano Majdi per chiedergli chi cavolo fossimo. In effetti, dovevamo sembrare veramente un gruppo strano!». L’ospitalità, dice Peppe, è stata incredibile: «Ancora più calorosa di quanto potessimo immaginare: vedere tanto affetto spontaneo (e anche superiore ai nostri meriti, diciamolo), in una situazione simile, è stato veramente fantastico».
Importante, insomma, toccare con mano le necessità dei rifugiati. Ancora Peppe: «Innanzitutto, è fondamentale per loro che si parli il più possibile della loro situazione. E poi sarà un cliché, ma serve veramente di tutto: strutture di aggregazione, attrezzature sportive, ma anche libri, materiale scolastico… Insomma, veramente di tutto. Anche per sostenere lo sforzo di Majdi e delle ragazze: sono partite in sei, otto anni fa: ora sono venticinque giocatrici, giocano sempre meglio, hanno anche qualche atleta libanese, che vive fuori dal campo. Ed è incredibile che riescano a trovare tutta questa voglia di giocare, anche in una situazione simile. Il minimo che possiamo fare è dargli una mano».
Un’esperienza importante, insomma… «Assolutamente», chiosa Luca:«Sono stati giorni incredibili, che mi hanno convinto di quanto sia giusto l’impegno nel progetto BBB».
A cura di Roberto Consiglio