Se è vero, come tanti soloni amano ripetere fino allo sfinimento, che il calcio è l’oppio dei popoli, evidentemente in Cile ne sta girando una partita tagliata molto male.
Seguendo un copione che abbiamo già visto all’opera in Turchia, in Grecia e durante le “primavere arabe”, le barras-bravas più numerose e influenti del paese si sono riunite contro il nemico comune costituito dal governo e soprattutto dall’esercito che sembra si sia rituffato in un revival di quelle triste notti cilene degli anni ’70 con tutto quel corollario di omicidi, sequestri, stupri e torture che fanno indignare i liberal occidentali a intermittenza ed evidentemente non in questo caso.
Sono stati proprio gli ultras del Colo Colo, “La Garra Blanca” che affonda tradizionalmente le proprie radici nelle classi più popolari, a chiamare all’insurrezione la popolazione di Santiago e immediatamente gli hanno fatto eco “Los de Abajo” della CF Universidad de Chile che hanno invitato i cileni a partecipare agli scioperi e a sabotare le attività produttive del paese e a loro si sono affiancate tante altre tifoserie come i “Los Panzers” del Santiago Wanderers, “Los Cruzados” dell’Universidad Catòlica e molte altre ancora che grazie all’abitudine di indossare le maglie dei loro team andavano a costituire un coloratissimo mosaico sulle barricate di Santiago, Valparaiso e di tutti i principali centri cileni che hanno visto diverse migliaia di arresti e feriti e un numero ancora imprecisato di vittime.
Com’è ormai noto (nonostante un vergognoso silenzio dei media nostrani e del parlamento dell’Unione Europea), la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento del costo del biglietto dei mezzi pubblici (il terzo dall’insediamento di Piñera al governo), provvedimento ritirato quasi subito, ma ormai il dado era tratto e tutto il Cile è sceso in piazza (si calcola che nella sola Santiago abbiano protestato oltre un milione di persone, circa un sesto della popolazione censita), animato da un risentimento verso le promesse incompiute di questi trent’anni post-dittatura gestiti secondo i dettami liberali che nonostante i freddi dati di PIL e reddito pro-capite parlino del Cile come di una delle economie più in salute del subcontinente, la realtà racconta di una scarsa redistribuzione della ricchezza a dispetto del costo della vita in continuo aumento (non molto distante dai target dell’Europa occidentale) anche per quello che riguarda servizi essenziali come l’acqua, l’elettricità, i trasporti e l’istruzione, di fronte a uno stipendio medio di 530 euro mensili e a pensioni inferiori ai 200. Insomma una dimostrazione compiuta di quello che è e sarà il “capitalismo reale” per i popoli della periferia del mondo.
Quello che probabilmente è meno noto è l’importanza che ha avuto il calcio all’interno di queste temperie: oltre allo spostamento di sede della finale di Copa Libertadores da Santiago a Lima, che di per sé rappresenta un grosso smacco per il governo che più volte ci aveva tenuto a rassicurare sulla sicurezza interna, il massimo campionato cileno è fermo dal weekend del 17 ottobre, quando sarebbe dovuto andare in scena il sentito derby tra Universidad Catòlica e Colo Colo, che avrebbe potuto consegnare di fatto il titolo ai primi, e sarebbe dovuto riprendere alla fine della settimana scorsa.
Non appena dichiarato lo stato d’emergenza da Piñera, la sicurezza nazionale è stata affidata al generale Itiurraga che ha dedicato buona parte del primo discorso allo svolgimento di Universidad Catòlica – Colo Colo, valutato come termometro della normalità del paese, come dimostra il “gioco di posizione” che si sta tutt’ora svolgendo tra l’ANFP, la federcalcio cilena, e gli addetti ai lavori. Oltre alla dura opposizione da parte delle tifoserie che hanno invitato i propri affiliati a disertare gli spalti e proseguire la rivolta, è interessante notare anche il comportamento degli stessi calciatori cileni: molti di loro hanno preso posizione a favore del popolo cileno, tra cui diversi protagonisti della storica vittoria di due Copa America di fila da parte della “Roja” (tra l’altro le prime due affermazioni continentali della nazionale andina): dall’ex Ct della nazionale Jorge Sanpaoli (ora sulla panchina del Santos) che ha posto sul banco degli imputati direttamente il neoliberismo indicando nel popolo cileno un esempio per tutto il Sudamerica, allo storico capitano del Colo Colo, Esteban Paredes, che ha esortato i suoi colleghi a partecipare tutti insieme organizzati alle proteste e a non scendere in campo fino a quando la situazione non si sarà risolta e che questa volta non verrà usato il calcio per placare gli animi, fino a vecchie conoscenze del campionato italiano come Vidal e Medel che provenienti da quartieri disadattati, il primo vicino ai trafficanti di droga, il secondo cresciuto nell’inedia nella periferia di Santiago, non hanno dimenticato il loro background d’origine e hanno preso le parti dei rivoltosi, così come Pinilla, Aranguiz, la nazionale femminile che durante un’amichevole in Australia ha esposto un cartello con scritto: “La democrazia cilena tortura, stupra, mutila e uccide i suoi cittadini! Fuera Piñera” e molti altri ancora che hanno fatto da contraltare sia alla posizione pilatesca dei maggiori club che a quella filogovernativa della stessa ANFP.
Infatti, quest’ultima, in nome di un non meglio precisato interesse nazionale che di fatto coincide con quello dell’establishment avrebbe voluto riprendere a giocare già sabato scorso, per dare un segnale di stabilità e un deterrente per la popolazione cilena, ma che proprio nelle espressioni più genuine di essa, le barras, e nei loro eroi, i giocatori, ha trovato un fermo diniego. Dopo i primi rovesci di piazza Piñera, che non aveva esitato a parlare di “guerra civile”, sembra essere giunto a più miti conclusioni, ritirando il provvedimento dello scandalo, bloccando gli aumenti dell’elettricità e promettendo un aumento delle pensioni minime, ma la partita sembra ancora distante dalla sua conclusione e sapere di poter contare sia sulle tifoserie che su tanti giocatori di successo, in un contesto come quello dell’America Latina in cui, giusto per spostare lo sguardo un po’ più a est, sono stati tanti i giocatori vicini al potere e alle dittature (dall’Argentina dei colonnelli, fino agli endorsement di tanti campioni verdeoro a Bolsonaro), i figliocci di Caszely, il calciatore cileno che negli anni ’70 sfidò Pinochet, garantiscono al popolo che questa volta il calcio non farà da garante alla pace sociale voluta dall’alto, ma che anzi esso fa parte del processo per cambiare lo stato attuale delle cose.
Giuseppe Ranieri