Stasera andrà in scena l’atto conclusivo di questa Copa Libertadores tra River Plate e Flamengo, la prima finale unica, la seconda di fila con spostamento di sede: infatti dopo quanto accaduto l’anno scorso per il Clasico tra Boca Junior e River Plate, costrette a giocare il ritorno a Madrid, quest’anno a cambiare i piani della Conmebol ci ha pensato il popolo cileno che ha costretto il massimo organismo del calcio sudamericano a dirottare la sede da Santiago a Lima.
Se da un lato troviamo una formazione abituata a certi palcoscenici nonché squadra detentrice del trofeo, vale a dire il River Plate, dall’altro invece c’è il gradito ritorno di una grande del calcio carioca che non raggiungeva vette simili dai tempi dell’amatissimo Zico. Lungi da noi voler sminuire il valore della partita più importante del subcontinente, ma in contemporanea il team brasiliano sta disputando un’altra partita, importante anche questa, la cui posta in palio è l’anima e l’identità della squadra rosso-nera, la più seguita e amata in patria insieme al Corinthians.
Il 13 novembre nella capitale brasiliana si è svolto un incontro istituzionale tra il presidente brasiliano Bolsonaro e il suo omologo cinese Xi Jinping, che ha così ricambiato la visita del presidente brasiliano a Pechino nell’ambito di una maggiore cooperazione commerciale. Ciò che si è rivelato singolare è stato il dono di Bolsonaro al leader cinese di una tuta da allenamento del Flamengo contornato dalla dichiarazione che nella finale di stasera la squadra rossonera avrebbe potuto contare sul supporto di 1,3 miliardi di cinesi. Di primo acchito, si potrebbe pensare che non ci sarebbe nulla di male: d’altronde ci troviamo in Brasile dove “o futebol” è qualcosa in più di una semplice religione laica e non siamo nemmeno sorpresi di fronte a casi di sport-washing in salsa carioca: dalla dittatura militare durante i Mondiali vinti nel 1970 all’interesse in prima persona di Lula per la costruzione dello stadio del Corinthians, la classe politica brasiliana ha sempre investito sulla costruzione di consenso attraverso il calcio e di fronte alla medaglietta data dal Corinthians al “Major Olimpio” che la riceveva con la maglietta personalizzata del club bianconero, pensiamo che difficilmente potremmo assistere a qualcosa di più grottesco.
Le cose cominciano a essere un po’ meno limpide, se ci si ricorda che soltanto pochi mesi fa Bolsonaro era in campo a festeggiare la vittoria del titolo brasiliano da parte del Palmeiras, squadra rivale del Flamengo; un po’ come se il premier Conte che spesso per sdrammatizzare nei non pochi momenti difficili del suo mandato faceva riferimento alla sua fede romanista, facesse il tifo per i trionfi della Lazio.
Ma non ci troviamo di fronte a un caso isolato dettato dall’ormai conclamata megalomania di “Bolso”, ad esempio basta vedere come anche il Governatore di Rio de Janeiro, Wilson Witzel (del PSC, il Partito Sociale-Cristiano) dapprima seguace fedele del presidente brasiliano, mentre ora rientra nella schiera dei delusi, cavalca anch’esso l’onda lunga dei rossoneri, e si è speso in prima persona affinché Flamengo e Fluminense potessero gestire insieme il Maracanà (provocando anche le proteste della società del Vasco de Gama per mancanza di trasparenza riguardo all’assegnazione) e pur essendo un tifoso del Corinthians, si è fatto vedere più volte con la maglia del Flamengo a seguire le partite allo stadio. Ma anche l’addetto alle pubbliche relazioni del club, Alexander Santos, distintosi per essere riuscito a ottenere licenze da parte degli enti locali per smantellare quella che resta del “nido degli avvoltoi”, la residenza delle giovanili del club funestata all’inizio dell’anno da un incendio che costò la vita a una decina di giovani calciatori, ha collegato ulteriormente la società a diversi riferimenti della destra, estrema e non, del paese, come l'ex senatore Magno Malta (PL-ES) e il deputato statale Rodrigo Amorim (PSL-RJ), personaggio quest’ultimo noto per avere nel proprio ufficio oltre alle foto di Bolsonaro e la maglietta rossonera numero 17, un pezzo della targa di Marielle Franco, divelta proprio da lui, tant’è che la sua ingerenza nel club ha provocato diversi malumori tra i soci costringendo il consiglio del club a correre ai ripari, sfoderando il parafulmine dell’apoliticità della squadra, ma l’unico effetto concreto di questa presa di posizione è stata la possibilità della società di defilarsi dal tributo per l'ex canottiere rosso-nero Stuart Angel, torturato e ucciso nel 1971 dalla dittatura militare, organizzato dalla tifoseria. Tuttavia l’elenco sarebbe molto più lungo.
Nel frattempo, il Flamengo ha decisamente modificato (trasfigurato?) la propria immagine, venendo incontro ai dettami del calcio finanziario e grazie anche alla cessione di alcune delle sue stelline più promettenti come ad esempio Paquetà, Paolo Guerrero Diego, Conca, Éverton Ribeiro, Diego Alves e Henrique Dourado, dal 2015 la società “rubro negra”, è riuscita a invertire la rotta che la vedeva fortemente indebitata e nel giro di pochi anni partendo da un debito di 20 milioni di reais che aveva nel 2013 è arrivata a un attivo di 133 milioni l’anno scorso, grazie alla formula dettata dal vice presidente Claudio Pracownik “Credibilità, pianificazione e creatività” e a uno sfruttamento intensivo del marketing (e anche grazie alla legge dell’allora presidente Dilma Rousseff che consentì alle società calcistiche di rinegoziare i propri debiti e il Flamengo li ha spalmati in vent’anni) e adesso l’obiettivo sarebbe quello di trasformarlo nel “Bayern brasiliano”, un esempio di vittorie nel nome dell’autarchia. Un altro ingrediente necessario per questa ricetta, ovviamente, sono gli introiti derivati dai biglietti, andando incontro così a quell’elitizzazione del calcio brasiliano che denunciammo già ai tempi della scorsa Copa America.
Anche perché il Flamengo, nonostante possa annoverare fans di ogni estrazione sociale, è riconosciuto come il “club delle favelas” come usavano dire i tifosi avversari per denigrarlo, perché alle sue partite casalinghe era altissimo il numero di tifosi che provenivano dai quartieri più svantaggiati di Rio e anche la sua torcida, il Comando Vermelho, ha sempre rivendicato con orgoglio e appartenenza queste radici, modificando le canzoni offensive degli avversari per farne motivo di vanto e forgiando così una nuova identità, demistificando il crimine, l'emarginazione e la violenza abituali nelle favelas, tant’è che i supporters in trasferta attraverso cori e striscioni amavano ripetere che “la favela è qui!”, e neanche l’epiteto razzista affibbiatogli dalle tifoserie nemiche negli anni ’70-’80 vale a dire “avvoltoi”, sembrava scalfirli più di tanto, e infatti l’avvoltoio divenne la mascotte del club. Un club che annovera con vanto diversi giocatori provenienti proprio dai sobborghi più problematici, come Adriano e Vinicius Jr. Perché per il popolo rossonero rivendicare l’appartenenza alle baraccopoli equivale a dichiararsi seguaci del proprio team a prescindere dalle avversità calcistiche e non, come ad esempio il “cecchinaggio” dai tetti da parte degli squadroni della morte, quindi una sorta di condizione mentale. Non sorprende quindi l’aperta protesta di fronte all’eliminazione da parte della società nella comunicazione di uno degli hashtag più in voga quando giocano i rossoneri, ovvero #FestaNaFavela, che esaltava l’orgoglio del club di rappresentare le classi sociali più umili non solo di Rio, ma di tutto il Brasile. Mentre adesso secondo la società sarebbe lesivo nei confronti dell’immagine della stessa: ciò che prima era una fonte di orgoglio, adesso nel Brasile di Bolsonaro sembra essere motivo di vergogna e di imbarazzo e perciò la domanda che ci sorge è quanto saranno disposti a sopportare questo snaturamento i tifosi del Flamengo e fino a dove si spingerà lo svuotamento della poesia del calcio in quella che (insieme all’Inghilterra) costituisce la sua patria morale, può davvero una finale di Copa Libertadores valere più dell’essenza di un club importantissimo. Ci troviamo di fronte a un revival del “Parigi val bene una messa?” ma in questo caso “Lima varrà quanto gli avvoltoi?”.
Giuseppe Ranieri