Uno dei fatti più eclatanti del week end sportivo è stato senza dubbio la presa di posizione del calciatore dell’Arsenal Mesut Özil tramite i propri profili twitter e instagram, riguardo al trattamento riservato dalla Repubblica Popolare Cinese nei confronti della minoranza uigura, un’etnia turcofona di religione musulmana dello XinJang (o come lo definisce il calciatore usando il nome dato dagli stessi uiguri alla regione, Turkestan orientale).
«Il Turkestan orientale, la ferita sanguinante dell’ummah sta resistendo contro gli aguzzini che provano a privarlo della sua religione. Bruciano i loro Corani. Chiudono le loro moschee. Bandiscono le loro scuole. Uccidono i loro leader spirituali. Gli uomini sono portati di forza dentro campi di concentramento e le loro famiglie costrette a vivere con uomini cinesi. Le donne sono costrette a sposare uomini cinesi […] Nonostante ciò, i musulmani rimangono in silenzio. Non solleveranno una foglia. Hanno abbandonato gli uiguri. Non lo sanno che dare il proprio consenso a una persecuzione è come commetterla?».
La reazione delle autorità cinesi ovviamente non si è fatta attendere e, nonostante la società del calciatore abbia preso ufficialmente le distanze dal proprio tesserato, la televisione di stato di Pechino ha deciso di non trasmettere l’incontro tra Arsenal e Manchester City, big match della diciassettesima giornata di premier League (terminato 3-0 per i citizens) ripiegando su Wolverhampton-Tottenham, come se al posto di Roma-Juventus, avessero trasmesso Napoli-Sassuolo (con tutto il rispetto per entrambe le formazioni).
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: Özil non è diventato di punto in bianco un difensore dei diritti umani, sono note le sue posizioni a favore dell’esercito turco e il fatto che il suo testimone di nozze sia addirittura Erdogan; inoltre il Movimento Musulmano per il Turkestan orientale, a causa degli attentati che lo hanno visto protagonista, è inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche (come accade anche al PKK che invece supponiamo non stia simpatico al centrocampista…). Il centrocampista tedesco di origini turche è semplicemente un fervente musulmano e il suo intervento mira a chiedere un intervento della comunità musulmana in quella che è una delle vicende che, anche grazie alla classica strategia di far calare una coltre di silenzio sulla vicenda, mentre i principali avversari politici si prodigano nel far uscire prove e dossier vari, mettono maggiormente in difficoltà le autorità cinesi sullo scacchiere internazionale.
Già, ma non si tratta dell’unico fattore di imbarazzo per Pechino, visto che negli ultimi mesi (da marzo per la precisione) a tenere banco sono le proteste che si sono scatenate a Hong Kong in seguito al disegno di legge sull’estradizione. Vicenda che viene seguita con tanta solerzia quanto faziosità anche dai media nostrani, sempre in prima linea quando si tratta di documentare le tensioni e le violenze di piazza quando queste riguardano un paese estraneo al proprio sistema di alleanze geopolitiche, ma che nel farlo si trovano in buona compagnia. Infatti, nello scorso mese di ottobre, Daryl Morey, dirigente degli Houston Rockets, ha scritto un tweet a sostegno dei manifestanti di Hong Kong, il tweet è stato successivamente rimosso in fretta, ma ciò non ha impedito la sua diffusione in Cina e una reazione che ha coinvolto tutti, dagli apparati statali al popolo, portando alla temporanea sospensione degli accordi commerciali della NBA con gli sponsor cinesi, prima di una frettolosa retromarcia del patron degli Houston Rockets (probabilmente la squadra più amata in Cina, grazie alla stella Yao Ming simbolo del basket cinese e asso dei Rockets nello scorso decennio) Tilman Ferlitta, che ha sconfessato pubblicamente il suo manager per tentare di salvare il salvabile, visto che nel frattempo la squadra texana era stata espulsa dal palinsesto televisivo cinese procurando un grosso danno economico non solo per la propria franchigia, ma per tutto il roster NBA. Alla fine, Morey è stato costretto a cancellare il proprio post e a scriverne un altro in cui spiegava che si trattava di opinioni personali da non addebitare ai Rockets, incorrendo così nelle ire di Adam Silver, dirigente della NBA che difendeva la libertà di pensiero di Morey.
Lungi da noi voler fare un unico calderone tra una situazione che, ammettiamo, conosciamo poco, come quella dello Xinjang e una che conosciamo un po’ meglio come quella di Hong Kong e che lancia segnali inequivocabili come i messaggi a Trump visto come salvatore della libertà (!!!), e sbilanciarci in commenti semplicistici al limite del qualunquismo, questi episodi sollevano diversi interrogativi.
Dapprima, è evidente che il soft-power cinese, che proprio nel calcio e nello sport in generale vede un tassello fondamentale, procede molto meno speditamente di quanto fosse previsto da Pechino; a tal riguardo ulteriori dimostrazioni le possiamo trovare in Francia quando prima di Lione-Nantes, trasmessa lo scorso 28 settembre alle 13.30 per consentire agli abitanti di Shangai di poter assistere al match a un orario fruibile (nella metropoli cinese sarebbero state le 19.30), i Bad Gones, il gruppo ultras lionese (di estrema destra), imbastirono una coreografia a base di un mosaico di cartoncini che andavano formando la bandiera tibetana con lo striscione “Free Tibet” che poi ha ceduto il posto a uno recante la scritta “Free Ligue 1” prontamente oscurata dalle tv cinesi; oppure in Germania, quando nel 2017 la formazione sperimentale cinese under 23 avrebbe dovuto giocare (senza fare classifica) nel girone nord occidentale della quarta serie tedesca e fu contestata già alla prima partita a Magonza, causando le proteste formali di Pechino che in seguito decise di ritirare definitivamente la squadra.
D’altro canto, pur non volendo assumere al ruolo di avvocati di ufficio della Repubblica Popolare Cinese, pensiamo che ci siano altre doverose considerazioni da fare: al di là di ogni sterile velleità nostalgica sul calcio che fu, a tutti quelli che come noi non si sono mai risparmiati nel denunciare i mali dell’eccessiva commercializzazione del calcio e di quanto questa paventata apertura ai mercati asiatici risultasse a dir poco contro natura (il derby di Milano giocato all’ora di pranzo un paio di stagioni fa resta un’onta difficilmente cancellabile), ci è sempre stato rimproverato di essere eccessivamente sentimentalisti e poco pratici, sciorinando cifre stellari di introiti e dividendo fino a pochi anni fa inimmaginabili (235 milioni di dollari per la Premier League fino al 2022, mentre per l’NBA si parla addirittura di 4 miliardi di ricavi!), sembrava che fosse stata trovata la nuova gallina dalle uova d’oro e che sarebbe bastato poco, qualche calciatore a fine carriera da portare a svernare e un paio di tournée ad agosto, a rendere fessi e contenti i nuovi paperoni, ma tutti avevano fatto i conti senza l’oste, vale a dire le peculiarità della Cina, la gelosa difesa della riservatezza delle sue questioni interne e delle sue prerogative statali. «È il capitalismo, bellezza!» verrebbe da dire a chi si è riscoperto ostile alle restrizioni e difensore del diritto di opinione, dimenticando che magari essi stessi oltre a sostenere spesso e volentieri che lo sport non debba mischiarsi con la politica, stigmatizzano gli striscioni che compaiono sulle gradinate. In fin dei conti, quando decidi di vendere l’anima, non puoi chiederne la restituzione!
Giuseppe Ranieri