Heather “The Heat” Hardy è originaria di Brooklyn, si allena alla Gleason Gym, uno dei tempi del pugilato statunitensi: qui si sono allenati pugili del calibro di LaMotta, Alì e Duran. Ha un record di 22 vittorie (4 ko) e una sconfitta, combatte anche nelle Mma (Mixed martial arts), ma non si limita a calci e pugni, è anche modella e grande appassionata di rap. Eppure nonostante sia una sportiva di fama mondiale sul web non è semplice scovare i suoi incontri. Anche se è una campionessa del mondo e una delle prime tre nella categoria dei pesi piuma. Ciò la dice lunga sul pugilato e sul divario di genere nel professionismo.
Oltre a boxare molto bene, Hardy è diventata un’icona femminista negli Stati Uniti. Almeno di questo l’accusano i suoi detrattori, pensando di farle un torto. L’“accusa” è di aver “importato” una battaglia antisessista nel pugilato. Una rivendicazione di stampo politico all’interno della noble art, che secondo alcuni invece dovrebbe rappresentare un campo neutro, privo di contraddizioni, asettico. Nello spirito di De Coubertin. Hardy invece non solo si è battuta per l’equiparazione delle borse (i corrispettivi che ricevono i pugili dopo ogni incontro) ma ha evidenziato le grandi difficoltà che le donne incontrano nell’accedere al professionismo. Non solo in termini economici.
Oggi è in prima linea nel sostenere la petizione – promossa dalla Everlast, famosa marca di abbigliamento e attrezzature pugilistiche che ha incontrato anche il favore di Lou Di Bella, uno dei più famosi promoter della boxe – per l’eliminazione della dicitura “Female” dal titolo del mondo.
Infatti sulla cintura della campionessa dei piuma in questo caso – per esempio del Wbc (World Boxing Council, una delle quattro sigle più importanti) – c’è scritto World Boxing Council Female Feather Title. Hardy sostiene che un campione e una campionessa sono uguali a prescindere dal genere e che la dicitura “Female” è discriminatoria, soprattutto in assenza del termine “Male”, su quella maschile. Insomma perché un campione del mondo (maschio) è un campione mentre una campionessa è una campionessa femminile? C’è veramente bisogno di questa differenziazione? Difficile da capire solo per chi ha pregiudizi.
Il rischio di sostenere una petizione promossa dalla Everlast è quella di promuovere un’operazione di pink washing di una delle società più importanti del mondo pugilistico. Esiste il rischio che alcune aziende sfruttino iniziative condivisibili e sacrosante semplicemente per scopi di promozione e marketing, ma questo non significa che tali iniziative non siano da sostenere. Questa presa di posizione ha incontrato talmente tanta resistenza da guadagnarsi sul campo legittimità.
Le reazioni dei vertici del pugilato mondiale e dell’ambiente in generale sono state scomposte e a dir poco sessiste. A chi parlava di un’inferiorità fisica delle donne, a chi paventava questioni economiche, a chi mettendo la testa nella sabbia non riconosceva il problema, non sono mancate gaffe. Di fatto al momento solo il Wbc si è dimostrato favorevole alla petizione.
Hardy comunque non è nuova a prendere di petto questioni del genere e la petizione è l’esito di anni di impegno diretto sugli squilibri salariali sul ring, argomento per lei centrale fin dal 2015. Ai suoi detrattori Hardy aveva già risposto nel 2019, in un’intervista su NY fights a Michael Woods: «A chi mi dice che devo portare spettatori per richiedere una paga egualitaria, dico che nei miei incontri porto guadagni puliti agli organizzatori fra i 35.000 e 40.000 dollari solo di biglietti. E sento anche persone affermare che i round per le donne sono a due minuti. Beh, sono a due minuti perché non ci permettono di combatterne tre, assurdi studi sostengono che le donne siano più portate ai traumi cranici. Ma nelle Mma le donne combattono round da 5 minuti».
La proposta di introdurre round da tre minuti ha incontrato il favore anche di Claressa Shield, campionessa dei medi e due volte medaglia d’oro alle Olimpiadi. Sul tema “The Heat” ha ricordato che in promotion di Mma come Ufc e Bellator, non solo la dicitura sulle cinture “Female” non esiste ma anche i round sono identici a quelli maschili.
Nell’intervista rilasciata a Michael Woods, Hardy si è fatta ritrarre sotto un cartellone pubblicitario dell’Adidas con su scritto: «There are too many obstacles standing between girls & sports». Anche qui ovviamente il rischio pink washing è dietro l’angolo e Hardy rischia di diventare una pedina in un gioco spregiudicato, schiacciata fra sponsorizzazioni e pressioni economiche, ma l’onestà del suo punto di vista è lampante.
Dopo l’intervista e in seguito alle sue prese di posizione, sono piovuti insulti dalla parte più retrograda e conservatrice degli Stati Uniti. Qualcuno ha smesso di seguirla, altri l’hanno minacciata o insultata semplicemente perché parole così sono scomode. Tuttavia Hardy ha sottolineato che le sue dichiarazioni non sono affatto politiche, né particolarmente radicali bensì semplicemente di buon senso.
A inizio marzo 2020 “The Heat” si è sfogata con un pezzo a sua firma su NY fights scrivendo ancora una volta che il divario economico è uno dei principali problemi del gap di genere: «La boxe e le Mma sono sport pericolosi. In dieci anni di carriera ho avuto oltre 60 punti di sutura in faccia e contusioni multiple. […] Amo questo sport. Ma conosco troppo di questo lavoro per lottare per niente. Pochi spiccioli rispetto a quello per cui combattono gli uomini. Se uscissi dal ring o dalla gabbia in barella chi si preoccuperebbe per me?».
Heather Hardy non ha intenzione di chinare la testa. Fuori e dentro il ring è pronta a rischiare pur di farsi sentire. Senza abbassare la guardia.
Filippo Petrocelli