C’è da riconoscerlo: noi calciofili siamo oltranzisti e diffidenti per natura. In primis nei confronti di tutto ciò che si discosta da quella che decantiamo da sempre come la sacralità del football. Per di più se rivendichiamo il suo carattere popolare.
Il nostro fondamentalismo assurge a legge inconfutabile se abbiamo vissuto anche solo una parte della nostra vita a cavallo tra il cosiddetto “vecchio calcio” e l’avvento del “calcio moderno”. Se per quest’ultima locuzione intendiamo lo spartiacque temporale dei primi anni Novanta del secolo scorso, con l’affermazione dell’industria televisiva delle pay-tv e della “Sentenza Bosman”, sulla libera circolazione dei calciatori comunitari nei paesi della Comunità Europea. E il conseguente corollario di trasformazione definitiva del calcio in un’industria multimilionaria.
Da lì, ce lo siamo sempre detti, è cambiato un po’ tutto. Si è acuito il divario tra i “grandi club” e tutti gli altri. Squadre storicamente mediocri hanno raggiunto status sportivi inimmaginabili qualche anno prima, grazie ai petroldollari degli sceicchi (vedi Manchester City e PSG). Gli ingaggi dei top player di oggi fanno girare la testa a chiunque strabuzzasse gli occhi per i “soli” 25 miliardi delle vecchie lire con cui la Juventus acquistò Baggio dalla Fiorentina.
La televisione è stata sicuramente una delle chiavi di volta.
Il rapporto tra lo schermo e il calcio ha raggiunto uno dei suoi apici più deliranti con l’avvento dei reality show. Quando all’inizio degli anni Duemila sulle reti Mediaset uscì “Campioni”, molti di noi hanno sicuramente storto il naso e deriso il tutto. Ciccio Graziani riesumato in veste di allenatore del Cervia in Eccellenza, con tanto di televoto per scegliere i titolari della domenica; le riprese nella quotidianità della vita dei calciatori e dello spogliatoio, luogo da sempre sacro per chi ha masticato anche solo qualcosina del calcio giocato.
Ma tanti, sotto mentite spoglie, hanno seguito le vicende di “Campioni”, mettendosi le mani sugli occhi e aprendo le dita per osservare di sottecchi.
Perché, pur assodato il nostro integralismo pallonaro, tutto ciò che si nutre di calcio o a esso rimanda ci attira. Nel bene e nel male.
L’ha dimostrato recentemente l’uscita del film “Ultras” di Francesco Lettieri, che volente o nolente ha suscitato fior di dibattiti, al di là dei riscontri positivi o negativi.
Ed è lo stesso spirito con cui mi sono imbattuto in “Sunderland 'til I die”, serie tv uscita su Netflix in due tornate. La prima stagione è stata inaugurata nel dicembre 2018 e le riprese si riferiscono all’annata 2017/18, quella che ha visto i “Black Cats” costretti a ripartire dalla Championship, la serie B inglese, dopo dieci stagioni di fila nella massima categoria.
Nelle ultime settimane l’ormai famoso portale cinematografico ha lanciato anche la seconda stagione, visto il successo del debutto, relativamente al campionato successivo del 2018/19.
Un esperimento, quello del reality show, che con il calcio ha a che fare ormai da diverso tempo.
Da “All for nothing”, che narra le vicende calcistiche del Manchester City di Guardiola, a “Juventus First Team”, passando per “Inside Borussia Dortmund” e altre. Serie televisive che mostrano il lato dello show business, ormai leit motiv del calcio moderno: le sedute di allenamento, la vita di spogliatoio, le transazioni astronomiche per aggiudicarsi il top player di turno, la spettacolarizzazione del quotidiano. Da Andy Warhol a George Orwell il passo è breve.
“Sunderland 'til I die”, pur seguendo il canone del “Grande Fratello che vi guarda”, ha un non so che di particolare rispetto ai format analoghi citati.
Meno blasonato dei suoi acerrimi rivali del Newcastle, che negli anni Novanta e a inizio Duemila seguivo con ardore per le prodezze di Alan Shearer, il Sunderland non l’avevo mai considerato particolarmente fino a qualche anno fa. Scoprii infatti che è il club tifato da Mensi degli Angelic Upstarts e già questo mi suscitò un bel pizzico di simpatia, corroborato dal sommovimento popolare di una buona fetta della comunità dei supporters all’arrivo di Paolo Di Canio sulla panchina dei “Black Cats” nel 2013. “Un fascista non può rappresentare i colori del Sunderland” dicevano molti tifosi all’epoca, sulla scorta della storica attitudine working class e solidale della comunità dei mackem, soprannome degli abitanti della città.
Nei sei mesi burrascosi trascorsi da Di Canio sulla panchina del Sunderland, c’è stato anche il derby vinto contro il Newcastle, che ha riavvicinato seppur temporaneamente la tifoseria all’allenatore italiano. Questo prima che la squadra facesse ammutinamento contro i suoi metodi di allenamento “dittatoriali”, che portarono la dirigenza al suo esonero.
In ogni caso, devo riconoscere che la visione di questa serie tv, al di là del mero aspetto calcistico e di spettacolarizzazione, è stata piuttosto piacevole.
Forse ha contribuito la caratura di un club attorniato da un alone di fatalismo perenne ma da un senso di comunità notevole. Che ha vinto l’ultimo trofeo, la FA Cup, nel 1973, e l’ultimo campionato dell’allora First Division nel 1936.
Il vecchio tassista abbonato pluriennale al club, la coppia ultrasessantenne che mette da parte i risparmi di lavoro e sussidio per andare a Wembley a giocarsi spareggi e finali “minori”, il padre e il figlio che piangono assieme sugli spalti o davanti al televisore.
È l’aspetto sociale che si alterna alle vicende calcistiche, non certo entusiasmanti. Se non per l’attaccamento, per certi versi fuori tempo, di calciatori come McGeady, a dispetto dei giovani come Maja, attirati immediatamente dalle sirene di mercato internazionale.
Qui per diversi secoli l’industria cantieristica portuale e il commercio di sale e carbone sono stati il motore economico, fino alla fine degli anni Settanta quando il porto è stato chiuso e la disoccupazione ha subito un’impennata.
A metà degli anni Ottanta la situazione economica di Sunderland iniziò a migliorare, grazie anche all’apertura di varie filiali della casa automobilistica giapponese Nissan, voluta dalla famigerata “Iron Lady” Margaret Thatcher per garantire il mercato con il resto d’Europa. Buona parte dei vecchi cantieri navali fu riconvertita, inoltre, in strutture residenziali e ricreative, compreso l’attuale Stadium of the Light, teatro delle partite dei biancorossi.
Dalla serie esce uno spaccato significativo di una comunità operaia che come tutto il nord dell’Inghilterra ha consolidato le sue radici tra fabbriche, club calcistico e pub. Anche se nel 2016 fu la prima città a dichiarare il consenso alla Brexit. Per due ragioni, fondamentalmente: perché il Nord dell’Inghilterra, dopo la morte lenta di fabbriche e miniere, si è sentito abbandonato da Londra e ha voluto dare una frustata di risentimento, e per la retorica contro i migranti, che ha attecchito in taluni settori sociali dove il tasso di disoccupazione è altissimo. In una città in cui gli stranieri sono forse il 5%.
Una storia che potrebbe essere tranquillamente la pagina di un libro di Anthony Cartwright.
Per il resto evito volutamente di “spoilerare” contenuti e risultati, accessibili peraltro in ogni dove sul web, ma che toglierebbero a chi non ne fosse informato quel brivido che ogni puntata ha tenuto me e altri in bilico sulle sorti della squadra.
Mi sento invece di riportare il carattere realistico e autentico (anche se suona come ossimoro, dato il format del reality show), privo di pregiudizi e filtri, che la produzione ha restituito con questa serie, rispetto alla base sociale e culturale che fa da sfondo e motore alla realtà del Sunderland AFC e della città.
E a beneficio della veridicità e della legittimazione del nostro fondamentalismo calcistico e tifoso, segnalo anche le scaramucce tra gruppetti di supporters di casa con quelli del Celtic Glasgow, dopo un’amichevole estiva, riprese nel primo episodio della prima stagione. Con tanto di teste aperte e lanci di oggetti, senza alcun commento fuori campo. A tratteggiare tacitamente e a onor di cronaca reale un aspetto non di poco conto del caleidoscopio sociale del calcio.
Anche a Sunderland, per di più in un format televisivo su scala mondiale.
Al di là dunque delle malefiche grinfie delle telecamere, che negli ultimi decenni hanno profanato il carattere popolare del calcio a più livelli, da “Sunderland 'til I die” emerge tutta la sacralità di uno sport che, come diceva John King, senza i tifosi sarebbe una gran cagata. Concetto rafforzato dalle immagini dei bambini che rincorrono il pallone per le strade della città, in apertura della serie. Subito dopo la messa e le parole del pastore: “Preghiamo per il Sunderland FC e per la nostra città. Signore aiutaci a comprendere ciò che il calcio significa per la comunità”.
Questa serie ci invita implicitamente a tenerci con le unghie e con i denti quell’anima popolare del calcio. Così come a Sunderland il senso di comunità e identificazione unisce nel limite del possibile chi calca il prato dello Stadium of Lights e chi si sgola dagli spalti urlando “Ha 'way the lads”.
Nicolò Rondinelli