Si fa un gran parlare in queste settimane della ripresa o meno dei campionati, non solo in Italia ma in tutto il calcio europeo e oltre. Tra protocolli sanitari arzigogolati e poco credibili e pressioni dettate da esigenze di business, si va verso una ripresa con gli stadi a porte chiuse e con l'incognita che da un giorno all'altro potrebbe di nuovo fermarsi tutto, se il virus dovesse decidere di tornare a farsi vivo in modo minaccioso.
In questo contesto stanno girando anche le prese di posizione degli ultras: c'è un comunicato firmato da centinaia di gruppi a livello europeo, ci sono altri comunicati e volantini più individuali e collaterali di singoli gruppi o singole città, ma sostanzialmente tutti sullo stesso tono. Il calcio senza gli spalti affollati dai tifosi non dovrebbe riprendere. Lineare, giusto, ineccepibile.
Quello che convince meno è però tutto il contorno concettuale che gira intorno a questa presa di posizione. Ci sono accenni al rispetto per la vita umana, quindi per le vittime. Ora, tralasciando speculazioni filosofiche sul significato della morte e sul suo essere un evento che purtroppo colpisce continuamente tutte le comunità umane, il vero dubbio è su quali siano i limiti spaziali e temporali del lutto: dopo ogni evento tragico, bene o male, prima o poi la vita deve riprendere a scorrere. C'è davvero un metro da applicare per dire quando, e come? Difficile dirlo. Oltre a questo, invocare il “rispetto per i morti” è una cosa che troppo spesso viene chiesta agli altri, ma rispettata solo a tratti. Proprio gli ultras ne sanno qualcosa, non prendiamoci in giro. E sono pronto a scommettere soldi che, fra un po' di tempo, che so, qualche anno, nelle partite contro Atalanta, Brescia, Cremonese, le milanesi, fioccheranno gli sfottò sul virus, come sono sempre fioccati quelli sul Vesuvio, il colera, le alluvioni, i terremoti e via dicendo. Giusto il tempo di elaborare un pochino il lutto, ma insomma, invocare una superiorità morale in questo campo forse appare un po' eccessivo.
C'è poi tutto il discorso sul calcio ormai trasformato in business, il nodo più problematico di tutti, per due motivi: il considerare la deriva affaristica del calcio una cosa estranea da sé, e la totale assenza di una controproposta, di un terreno non dico di lotta, ma di dialettica. Si sostiene che i campionati non dovrebbero ricominciare senza pubblico, cosa ripeto sacrosanta. Però tutto si ferma lì. Cosa facciamo altrimenti? Che alternativa mettiamo in campo?
Che il calcio professionistico nei paesi sviluppati sia un circo totalmente in preda al business e alle logiche di profitto non lo scopriamo certo ora. È evidente nella maniera più totale. Ed è una cosa che fa sicuramente incazzare, perché uno sport semplice e popolare, che ci piace così tanto, e ci unisce, e ci porta sulle gradinate, viene piegato a queste finalità. Ma, non nascondiamoci dietro a un dito, ne siamo completamente complici. Non ci obbliga nessuno a continuare a seguire il calcio professionistico, siamo noi che siamo dei tossici che non riescono a farne a meno. Possiamo smettere, se ci riusciamo. Oppure possiamo anche riconoscere questa cosa e farci pace. Convivere con le nostre contraddizioni. E magari lavorare in primis su noi stessi. Perché sembra non solo inutile, ma anche un pochino ipocrita, che ci si scagli contro il “calcio moderno” quando poi si impazzisce per l'acquisto del Cristiano Ronaldo di turno. Quando si accoglie un nuovo presidente miliardario con le fanfare e i tappeti rossi come se fosse un re medievale. Quando si contesta il presidente perché “non ha speso abbastanza”, cosa che a turno abbiamo fatto tutti, non fingiamo di no. O peggio ancora, cosa che per fortuna succede solo in alcune piazze, quando si fa in prima persona business all'interno delle proprie curve.
Veniamo alla controproposta. Se si ama il calcio e non si sopportano più le logiche del mercato, una via da percorrere c'è, ed è quella dell'azionariato popolare, dell'impegno in prima persona. Questo può essere praticato, come già accade in molti casi, fondando da zero un nuovo progetto e partendo dai polverosi campi delle ultime categorie. Ma si può anche iniziare a pensarlo per la squadra professionistica della propria città, magari procedendo per gradi. Non è che da un giorno all'altro una collettività di migliaia di tifosi può prendere in carico e gestire una squadra di serie A, d'accordo. Ma si potrebbe pensare a fondare delle sorte di supporters trust, a rivendicare un potere almeno consultivo nei confronti della società sportiva, a partecipare con delle azioni al bilancio del club, ispirandosi anche a modelli in uso in altri paesi. E partendo da lì, farsi strada, verso un calcio che risponda davvero alle esigenze e ai desideri delle comunità, e non a quelle del padrone di turno.
Ma per fare entrambe queste cose, sia nel calcio dilettantistico che in quello maggiore, serve un livello di militanza enorme, la voglia di mettersi davvero in gioco, di sacrificare tempo, impegno, soldi e pazienza in un progetto che prevede un vero protagonismo. Non è una cosa che si fa a parole. Ed è questo il limite più evidente, e frustrante, di prese di posizione come quelle che stanno girando in questo periodo: che pur partendo da premesse giuste, assomigliano troppo a lamenti rivolti alla luna.
Matthias Moretti