Stilisticamente per qualcuno gli anni Ottanta vestono camicette a fiori e baffi come Tom Selleck in Magnum P.I. Per alcuni completi oversize di Don Johnson in Miami Vice. Per altri ancora suonano come i sintetizzatori di Kraftwerk e Depeche Mode. Per punk e skin borchie, anfibi e jeans attillati. Per gli integralisti del libero mercato invece sono i fermacravatte yuppie di Gordon Gekko in Wall Street. Per i calciofili nostalgici gli Ottanta fanno rima con il numero 10 di Maradona. Per me, e per molti altri fanatici del pugilato, gli anni Ottanta hanno la “boccia a pelle” lucida di Marvin Hagler, il fisico scolpito, un gancio micidiale, gli occhiali da sole a goccia e un cappello con scritto WAR.
Marvin “Marvelous” Hagler compie oggi 66 anni e merita di essere ricordato per quello che è: uno dei pugili più grandi della storia. Un peso medio old school, lontano dai calcoli di interesse e dai ragionamenti di convenienza che caratterizzano i campioni odierni. Un pugile nato per combattere che non si è mai risparmiato, né si è mai lamentato – nonostante abbia subito numerosi verdetti ingiusti – e che ha fatto l’unica cosa per cui era portato. Allenarsi, salire sul quadrato, mettersi al centro del ring e boxare. Contro chiunque.
La storia di Hagler rispetta fedelmente il copione dell’epica romantica del pugilato: infanzia difficile, cresciuto senza padre fra ristrettezze economiche, una madre-coraggio che da sola e contro tutti lotta per garantire un futuro degno ai suoi figli e il pugilato che diventa una zattera che impedisce il naufragio. Il riscatto dalla sofferenza. Il sapore del miele dopo quello del sangue.
Nato a Newark nel New Jersey il 23 maggio 1954, si trasferisce con la madre nella tranquillità di Brockton (Massachusetts) nell’estate del 1967, dopo i Newark riots, un’insurrezione afroamericana contro la brutale violenza poliziesca bianca, soffocata nel sangue con la legge marziale e 26 morti.
Brockton è la città di Rocky Marciano, monumento cittadino, ma è soprattutto un’oasi di tranquillità rispetto al conflittuale New Jersey. Lì la madre di Hagler vuole che il figlio cresca. Quando il giovane Marvin arriva in quella città di provincia, trova la palestra dei fratelli Petronelli, Goody e Pat – al secolo Guerino e Pasquale – nati negli Stati Uniti ma di origini abruzzesi. Quegli immigrati nostalgici che in casa parlano dialetto, ascoltano canzoni italiane e ricordano il Bel Paese. I Petronelli offrono a Hagler disciplina e uno scopo: diventare un pugile. Marvin impara a testa bassa, si impegna più del dovuto, assorbe al doppio della velocità degli altri.
Da dilettante mente sulla sua età, combatte contro avversari di due anni più grandi, in un periodo in cui due primavere distinguono un ragazzo da un uomo. Accede ai Golden Gloves, il massimo riconoscimento dilettantistico statunitense, e diventa campione nazionale. Combatte 54 incontri, 52 vittorie, 2 sole sconfitte. Mette ko i suoi avversari 43 volte, una rarità nella boxe olimpica. Marvin fa male, fin da novizio, fin da dilettante. Non è un predestinato, è piuttosto un fanatico del sacrificio, uno che lavoro duro.
Nel 1973 esordisce professionista e all’inizio della carriera frequenta la periferia del pugilato. I piccoli palazzetti della provincia americana, del New England e della East Coast. I sottoclou con poco appeal dove chi vince riceve 50 dollari. Però nei primi 26 incontri è imbattuto. Inizia a farsi un nome ma non sfonda. Non ha un manager di quelli “pesanti” ed è fuori dal giro che conta. Inizia a scalare le classifiche ma gli manca ancora qualcosa.
Poi il 13 gennaio 1976 la prima sconfitta contro Bobby Watts. Più che di sconfitta si tratta del primo verdetto ingiusto. Dopo quell’incontro una vittoria e nuovamente una sconfitta contro Willie Monroe. La carriera di Hagler è a un bivio: il pugile capisce che deve migliorare ora che il livello è salito. Sfrutta le battute di arresto per trovare nuovi stimoli, ributtarsi in palestra e migliorare. Questo periodo segna una cesura nella sua carriera e prepara la strada all’irresistibile ascesa verso i vertici del pugilato mondiale. Le due sconfitte vengono ampiamente ribaltate da Hagler, che ha l’“insano” vizio di vendicare i torti subiti. Proprio in quei giorni avviene il cambio di marcia.
Successivamente Marvin infila 20 vittorie consecutive. Come un rullo compressore. È pronto per il titolo mondiale dei pesi medi ma inspiegabilmente non viene nominato sfidante. La situazione è talmente paradossale che importanti politici – Tip O’Neill Jr., speaker della Camera, e il senatore Ted Kennedy – scrivono due lettere a Bob Arum, importantepromoter, e gli intimano di organizzare la sfida mondiale per Marvelous, altrimenti avrebbero avviato un’inchiesta.
Finalmente il 30 novembre 1980 Hagler sfida Vito Antuofermo per il titolo mondiale dei pesi medi. L’incontro è feroce, Hagler domina malmenando il rivale ma a sorpresa un verdetto di parità conferma Antuofermo campione. Un altro giudizio della vergogna segna la carriera del pugile del Massachusetts.
Quella stessa sera, nella stessa riunione, un altro pugile combatte per la prima volta per un titolo mondiale. È Sugar Ray Leonard. Per capire quanto ancora nei primi anni Ottanta Hagler fosse considerato un outsider, basta evocare la borsa dell’esordio dei due sfidanti al titolo mondiale. Sugar Ray 1 milione di dollari, Halger 40.000 dollari. Una differenza abissale che chiarisce la minore considerazione del pugile di Brockton.
Antuofermo rifiuta la rivincita ma perde la cintura contro il britannico Alan Minter qualche mese dopo. A questo punto nessuno può togliere un’altra chance titolata al Meraviglioso che ormai coltiva il sospetto che può vincere solo per ko perché i giudici gli remano contro.
La sfida mondiale contro Minter si disputa a Londra, a Wembley, con un palazzetto gremito. Nel pre-match i due pugili non lesinano offese. L’hype sale. Minter usa più volte epiteti razzisti. Hagler risponde per le rime. Al suono della campanella le promesse diventano realtà e i due pugili si affrontano a viso scoperto, senza troppi tatticismi. Hagler picchia duro e a poco più di un minuto dalla fine del terzo round l’arbitro ferma Minter. È una maschera di sangue, ko tecnico. Hagler non fa in tempo a inginocchiarsi per la gioia e alzare le braccia al cielo che si scatena il putiferio. Minter ha fama di essere razzista e a Wembley sono accorsi decine di membri del National Front (il partito fascista britannico) che non sono molto contenti dell’esito della sfida. Il pugile bianco beniamino della Corona è stato abbattuto da un afroamericano originario del ghetto. Inizia un fitto lancio di oggetti sul quadrato, Hagler viene circondato dal suo angolo e protetto dalla furia del pubblico che lo insulta lanciando di tutto. Marvelous abbandona l’arena scortato, non può neanche festeggiare il suo titolo per colpa di qualche infame del National Front. Piovono birre, bottigliette di acqua, fischi e razzismo.
Dopo la vittoria però Hagler ottiene il riconoscimento che si merita. Affronta di nuovo Antuofermo mettendolo ko e difende per dieci volte la cintura. Distrugge quasi tutti gli avversari. Batte gente del calibro di Fulgencio Obelmejias (imbattuto), Hamsho, “Manos de Piedra” Duran, una leggenda vivente. Ormai è l’uomo da battere. Il padrone pugilistico degli anni Ottanta.
L’undicesima volta che difende il titolo lo fa contro Thomas “Hitman” Hearns, originario di Detroit, in uno degli incontri più belli e violenti della storia del pugilato. Il 15 aprile 1985 va in scena quello che viene ricordato come “The War” nella cornice dorata del Caesar Palace di Las Vegas. Tre round selvaggi, due picchiatori testa a testa che vogliono buttarsi giù a vicenda. Vince chi rimane in piedi, perde chi va giù. Non c’è spazio per altro.
Hagler parte forte ma nel primo round c’è un momento in cui Hearns sembra avere il vento in poppa. Hagler lega con difficoltà. I ganci di Hagler contro diretti e montanti di Hearns. Uno che cerca di chiudere la distanza, l’altro che invece vuole boxare alla media. Nel secondo round più volte Hearns sembra in difficoltà. Come si dice in gergo ha le gambe rigide, ma continua. Prova a contenere il toro di Brockton che lo carica a testa bassa e avanza. Nel terzo round Hagler ha un taglio vistoso sulla fronte. Marvelous capisce che deve chiudere velocemente il match e si getta sul pugile di Detroit all’arma bianca.
I commentatori americani esaltati parlano di streetfight, uno scontro da strada che non ha bisogno di giudici o mediazioni, anche perché l’arbitro Richard Steele sembra un figurante imbarazzato. Prova a intervenire goffamente ma non c’è spazio per lui. Piovono cazzotti. Poi un gancio destro sorprende Hearns e lo fulmina. Il pugile di Detroit arretra, si appoggia alle corde, è praticamente già spento, ma con un po’ di mestiere resiste. Poi un secondo gancio destro spegne definitivamente la luce e Hearns va ko. Prova a rialzarsi, ci riesce, ma è ormai andato. Steele decreta la fine dell’incontro, il ko tecnico. Il campione resta campione.
Poco meno di un anno dopo quell’incontro epico, altro dogfight contro John “The Beast” Mugabi, un pugile ugandese imbattuto. Hagler vince per ko e dà spettacolo in un’altra battaglia epocale che vale ogni pugno dello scontro. Questo è il penultimo capitolo della carriera di Marvelous prima del sipario, l’incontro con Sugar Ray Leonard del 6 aprile 1987. Sugar Ray è il predestinato, il campione olimpico, il pugile miliardario coccolato dalla stampa e dai promoter. Hagler ora è il campione, il più forte peso medio del mondo, ma ha faticato per avere la cintura e non piace a tutti.
L’incontro è spettacolare, teso, colpo su colpo. Dodici round in cui Sugar Ray boxa con un’intelligenza sopraffina, girando per tutto il quadrato, mentre Hagler prende il centro del ring e cerca di accorciare. La prima parte dell’incontro è forse favorevole a Sugar Ray che combatte in scioltezza, entra ed esce con maestria nella guardia di Hagler. Con la velocità e la classe che lo distinguono. La seconda parte probabilmente è di Hagler, che in diversi momenti mette in seria difficoltà l’avversario. Per un giudice è 115-113 Hagler, per un altro 115-113 per Leonard. Per il terzo invece 118-110 Leonard. Una split decision in favore di Sugar Ray molto dubbia. Un verdetto da sempre contestato da più parti.
Questo è dunque l’ultimo atto, in verità il più discusso, della carriera di un uomo incredibile. Un pugile sempre underdog, sfavorito – come lui stesso si è sempre definito – che ha raggiunto il vertice del pugilato mondiale con la sola forza delle sue mani. Controcorrente, contro tutti. Tutt’altro che un predestinato. Piuttosto un pugile di ferro che non è mai andato ko. E che ha subito troppi verdetti ingiusti. Un campione che ha saputo imparare dalle proprie sconfitte e che è migliorato incontro dopo incontro, round dopo round. Nell’arco di quattordici anni di carriera in cui non ha rifiutato un avversario. Ma è stato a lungo ignorato dal pugilato che conta. Venuto dalla provincia ha combattuto sul ring con tutta la rabbia del mondo. Con furore. Come una vera icona degli anni Ottanta.
Filippo Petrocelli