Che la passione per il calcio e l'amore per la propria squadra possano rappresentare, in mille modi, valide metafore della vita e delle infinite situazioni che essa ti mette davanti, non lo scopriamo certo oggi. Ma leggendo “E non vorrei lo sai lasciarti mai perché”, di Lobanowski 2 a.k.a. Francesco Berlingieri (autoproduzione, 2013), si ha la piacevole sensazione di ripercorrere un viaggio che parte dall'infanzia profonda e, in una sorta di romanzo di formazione volutamente a-sistematico ed episodico, si snoda lungo aspetti fondamentali di una biografia umana, quali la famiglia, la propria città, gli amici, il calcio, quest'ultimo inteso in modo totale, pervasivo.
Non è un libro sugli ultras, per quanto scritto da uno di loro. Ma, parlando apparentemente d'altro, ti fa capire profondamente come e perché lo si diventi, come e perché il bambino che passa le giornate immerso nella favola calcistica, a fantasticare nei suoi giochi pomeridiani, diventi naturalmente un ultrà, se conserva intatta quella passione così innocente e profonda allo stesso tempo. Non è neanche un libro che narra le imprese dell'Unione Sportiva Foggia, né l'ubriacatura collettiva negli anni di Zemanlandia, né i grigi campionati di serie C degli ultimi due decenni. Tutto ciò fa parte della cornice del libro, entra di soppiatto nel racconto perché non potrebbe essere altrimenti, ma non è quello il punto.
La tua squadra non la scegli, ti tocca in sorte, o come dice l'autore “è lei che ti sceglie”, o perché è quella della tua città, o per alchimie di discendenza familiare, o per altre misteriose ragioni. Nel caso in questione le cose coincidono e creano una simbiosi con la maglia rossonera che sfiora l'assoluto, la religione laica. E quindi è normale che siano marginali le alterne vicende sul campo, gli uomini che passano, arrivano, vanno, tornano. Le cose che contano sono altre: lo sguardo di tuo padre mentre ti porta per la prima volta allo stadio seduto sulle sue spalle; le ritualità immutabili degli adulti di famiglia, che ultras non sono ma da una vita regalano una sofferenza autentica a quegli 11 uomini, chiunque essi siano; i giochi di bambino e di ragazzino, che invariabilmente simulano e riproducono imprese memorabili; i giochi da adulto, in trasferta con i fratelli di una vita, a conoscere il mondo a modo proprio. Senza compromessi, senza vantaggi e tornaconti, senza razionalità, o forse con una razionalità tutta propria.
Il libro va giù tutto di un fiato, anche grazie ai capitoli brevi che legano strettamente, anzi amalgamano, aneddotica e riflessione, ironia ed estrema serietà (“questo non è un gioco”). E crea un forte effetto di immedesimazione in chiunque abbia condiviso un percorso di vita sostanzialmente simile, con l'amore per il calcio che nasce in tenera età e non se ne va più: scandisce il ritmo delle stagioni come e più della scuola; ti insegna la geografia e ti mostra un caleidoscopio di colori sociali; stimola la fantasia nel creare giochi improbabili, dal subbuteo su superfici improprie a porte costruite in modo discutibile e crollate alla prima pallonata. Uno spirito ludico e al tempo stesso terribilmente serio, lo stesso che ti porta qualche anno dopo a girare l'Italia e l'Europa come un avventuriero in territorio ostile, a portare alti i colori e perché no a scontrarti per difenderli.
In sostanza quindi è un libro sul calcio e su come questo intervenga nel percorso di vita di chi se ne innamora, o se ne ammala, fin da piccolo. È importante anche, specie in realtà di provincia, la relazione con la città, una relazione di eterna minoranza, di contrarietà alla massa dai sentimenti ondivaghi, che si appassiona se va bene e abbandona se va male, che osanna e un minuto dopo contesta, che segue sempre la corrente per stare più comoda. Orgoglio e coerenza, sventolati come una bandiera, dietro a cui riconoscere chi veramente merita.
Una cosa, calcisticamente parlando, invidio all'autore: i circa 10 anni anagrafici in più di me, che gli hanno consentito di vedere un calcio, e un tifo, che probabilmente non torneranno più, quelli a cavallo tra fine '80 e inizio '90. Anche se forse è una prospettiva falsata, e si tende a mitizzare il passato, specie quando non lo si è conosciuto. Ma questa sensazione non me la leva nessuno, anche rivedendo vecchi filmati sembra un calcio più autentico, più epico, più immaginifico. Chissà se è vero, in ogni caso il libro aiuta a confermare questa percezione.
Che dire in conclusione? Innanzitutto leggetelo (si trova nelle migliori, o peggiori, librerie o infoshop, ambito ultras-antagonista). E poi, cerchiamo di resistere, se non collettivamente almeno in un angoletto del nostro intimo, a un calcio moderno che sradica proprio il mondo dipinto da Francesco, quello fatto di fantasia, appartenenza, militanza, fede incrollabile.
P.S. Un ringraziamento personale all'autore per avermi svelato il fatto che non ero l'unico bambino al mondo che giocava a subbuteo da solo, impersonando entrambe le squadre e facendo anche la radiocronaca, basando i tornei su quelli scritti negli almanacchi. Avevo derubricato il tutto alla voce “autismo” preparandomi un giorno o l'altro a rendermi conto di essere diventato un serial killer. Forse allora non era così grave.
Matthias Moretti