Probabilmente in questi cinque anni di avventura con sportpopolare.it, il più grande rimpianto che ho è legato alla Lokomotiv Flegrea: sarei dovuto andare ad assistere alla loro festa-promozione nell’aprile del 2018, ma all’ultimo il passaggio su blablacar con cui mi dovevo dirigere a Napoli (maledetta precarietà!) mi diede pacco. Ebbi modo di incontrare i ragazzi un paio di mesi dopo alla festa di compleanno del Quartograd e mi scusai con loro, ma alla fine dovevo scusarmi con me stesso per aver perso l’occasione di respirare la passione che sanno trasmettere. Rimanemmo che sarei andato a trovarli il prima possibile, ma tra cambiamenti che hanno sconquassato la mia vita (maledetta precarietà Atto Secondo) e il lockdown non mi è stato possibile. Perciò quando ho letto il loro comunicato di sospensione ci sono rimasto, ho deciso di contattarli e il risultato è stata quest’intervista tanto lunga quanto interessante e per certi versi scomoda, che merita di essere letta e analizzata.
Dunque, partiamo dalla fine (o come ci auguriamo, da quello che può essere un nuovo inizio), vi va di spiegarci come avete maturato questa decisione che supponiamo sia stata molto sofferta?
Le decisioni sono maturate in maniera spontanea, partendo prima di tutto dall'esigenza di riaffermare l’indirizzo politico del nostro progetto, riportando questo aspetto al centro di tutta la Lokomotiv, così come era stato immaginato in origine. Comportamenti sportivi e gestionali coerenti con i nostri ideali devono e dovranno sempre essere una componente indispensabile per proseguire nelle nostre lotte e perseguire i nostri obiettivi. Certo, ci siamo resi conto da tempo di calpestare un terreno accidentato. Le contraddizioni sono pericolose e l'emergenza sanitaria ci ha messo di fronte a una delle più grandi che potessimo immaginare, ovvero la possibilità di campionati di calcio senza pubblico, senza tifosi. Così abbiamo deciso di optare per una svolta radicale, affrontandola da “pionieri” ma sottolineando con forza una cosa: il calcio, e il calcio popolare ancora di più, non possono esistere senza tifosi. Un calcio senza la sua parte più viva è un calcio da abolire e da non prendere come esempio. È chiaro che per affermare con forza questo concetto il nostro dovrà essere un anno lotta e contemporaneamente di riflessione interna: la necessità è quella di rilanciare un progetto che vogliamo far sempre camminare sui giusti binari, alternativi al business e al potere, anche con l’idea di essere esempio e traino per tutto il movimento. E se vogliamo rilanciare, in quest’anno di certo non saremo fermi.
Durante il percorso assembleare degli ultimi mesi, abbiamo avuto modo di discutere a lungo riguardo gli obiettivi del progetto a medio e lungo termine. Confrontando questi ultimi con i vari “mezzi” che avevamo a disposizione, ci è sembrato il momento giusto per attaccare con forza le piccole e grandi contraddizioni che noi, come tutto il movimento, ci portavamo da anni, e che abbiamo provato a spiegare nel nostro comunicato (https://www.facebook.com/358002170994483/posts/2913472892114052/?d=n). Le vittorie sportive, con tutto quello che si portano dietro, mettono costantemente a rischio l’essenza “popolare” delle squadre che fanno parte del movimento, e questo è un rischio che non può più essere corso. Bisogna interrogarsi su quali risorse reperire e come, su come coniugare la crescita del parco giocatori con l’essenza amatoriale e antiprofessionistica del calcio popolare, con la presenza di piccoli sponsor e autofinanziamento… Approfittiamo di un anno che sarà inevitabilmente condizionato dal Covid e discutiamo veramente di questo!
Pensate proprio ci sia impossibile arrivare a una sintesi tra l’operato della FIGC e più in generale con l’andazzo del calcio mainstream e i principi alla base del calcio popolare?
La FIGC è un’istituzione capitalistica a guardia di un business miliardario. Non crediamo in nessun modo che possa essere un trampolino di lancio per un nuovo calcio, né tantomeno un orizzonte da guardare come obiettivo, al massimo un mezzo e uno strumento da sfruttare a nostro favore.
L'unico modo che riteniamo valido per proseguire la crescita del calcio popolare è l'aggregazione e la costruzione dal basso. L’idea di tanti è quella di una lega nazionale di calcio popolare, un obiettivo certamente difficile da perseguire ma indispensabile. La stessa natura del calcio popolare non è in linea d’altronde con l'essere rappresentata da un’istituzione che usa metodi repressivi, impone costi di gestione insostenibili per società fondate sull'autofinanziamento e l'allontanamento o almeno la riduzione drastica degli sponsor.
I campionati federali ci hanno sicuramente aiutato dando visibilità al progetto, ma allo stesso tempo si rischia di finire in un vortice dal quale è difficile non essere risucchiati. Siamo tutti appassionati di calcio e tifosi, e ovviamente ci onorava poter girare la Campania con i nostri colori, per di più vincendo anche. Ma è indispensabile ricordare che la FIGC è l’antitesi dello sport popolare, la nostra controparte politica, il nemico a cui guardare, anche se si decide di provare a essere un cavallo di Troia. Per anni ci siamo scontrati con questi burocrati legati a poteri politici e di altro genere, ma se anche si dovesse decidere che la FIGC è un male necessario da fronteggiare, non si può dimenticare che la relazione non può non essere conflittuale.
Da quanto emerge, seppure tra le righe, sembra che ci sia un po’ di critica nei confronti della direzione assunta dalla maggioranza delle squadre popolari, ci sbagliamo?
In tutti i momenti assembleari che abbiamo affrontato si è posto un forte interesse sulle azioni delle altre squadre di calcio popolare. Con molte di queste coltiviamo amicizie sincere, con altre abbiamo un costante e valido scambio. La nostra critica non va vista come una spaccatura. È una critica forte rispetto alle strategie che in questa fase in tanti stanno mettendo in campo che vuole essere da stimolo per riflessioni e scelte future del movimento.
Il calcio popolare lo stiamo costruendo tutti insieme. Quotidianamente. Con i nostri errori, i nostri litigi e le nostre idee. Ci stiamo mettendo tutti la faccia. Bisogna provare a essere uniti per rispondere ai continui attacchi che ci arrivano. Crediamo che questo sia il momento giusto per mettere in piedi momenti di confronto validi a livello nazionale. Ma come collettivo da certi valori non possiamo prescindere, a cominciare dalla purezza del progetto, dall’estraneità a certe dinamiche di commercio di titoli sportivi e fusioni varie, presenza dei tifosi alle partite. Per noi quello non è calcio, punto.
Secondo voi in questa situazione un po’ confusa, quanto incide la mancanza di momenti di confronti plenari tra tutti i protagonisti del calcio popolare?
Ci abbiamo provato, spesso, ma è molto difficile. Abbiamo fatto assemblee con velleità nazionali. Abbiamo viaggiato e proviamo a viaggiare verso Firenze, Taranto, Lecce, confrontandoci con le realtà che riteniamo più affini alla nostra. Ma tenere in piedi una squadra di calcio, e nel nostro caso una scuola calcio, è una vera e propria impresa, e ogni squadra è oberata da scadenze e impegni, per cui trovare spazi e momenti di condivisione per un movimento che ha rappresentative dal Piemonte alla Sicilia è veramente complesso. È anche vero che il movimento è molto eterogeneo, e le anime che hanno dato vita al calcio popolare in Italia hanno obiettivi comuni ma linee politiche decisamente diverse. Insomma stiamo parlando di una sfida nella sfida.
Sebbene alla base ci siano motivazioni differenti, anche la squadra di basket è stata costretta a non iscriversi al campionato, nonostante fosse diventata la seconda squadra cittadina. In tutta sincerità, non vi dispiace dover ricominciare daccapo nonostante i risultati importantissimi ottenuti o gli stimoli per migliorarsi hanno preso il sopravvento?
La rinuncia al basket è stata una grandissima delusione per tanti motivi, e un passaggio molto doloroso nella nostra storia. Al di là delle incredibili vittorie sportive avevamo costruito un gruppo di persone valido e incredibilmente funzionale a livello umano. Quella sensazione di unità e aggregazione umana è stato da quel momento sempre il nostro punto di riferimento. Questa volta è molto diverso. Lì c’erano degli ostacoli economici e logistici: eravamo diventati troppo grandi, non riuscivamo a mantenere una squadra in serie D rimanendo puri. Questa volta ci sono, alla base, riflessioni sì sofferte, ma ben ponderate come le successive azioni. La struttura assembleare era da rilanciare. Abbiamo tutti sentito l'esigenza di dare ai risultati il giusto valore e di spostare il punto focale sul materiale umano. Siamo veicolo di ideali e come tali andiamo rappresentati sul campo da calcio. Il dispiacere è tangibile sui volti di tutti noi. Ma la gioia e la soddisfazione nel tornare migliori di prima sarà ancora più grande.
Adesso, possiamo iniziare l’intervista tradizionale: parlateci un po’ della genesi del vostro progetto e del percorso fatto in questi anni. Qual è stata la risposta del territorio e più in generale come si declina la militanza politica e calcistica in un territorio come Bagnoli?
Il progetto Lokomotiv nasce nel 2013 nel modo più spontaneo possibile. Un gruppo di amici, tanti ideali e un'odio comune contro il calcio moderno.
In questo il nostro quartiere, Bagnoli, e Napoli hanno avuto una forte influenza. Servirebbe un’altra intervista per parlare del nostro quartiere. Bagnoli è storicamente un quartiere operaio, sede dell'ex-italsider, e come tale estremamente condizionante per la nostra linea politica. Il tessuto sociale ci ha aiutato ad esprimerci, ci ha seguiti ed aiutati in 7 anni fantastici. Abbiamo aggregato non solo compagni ma persone di ogni estrazione che hanno visto nel nostro progetto un baluardo per tornare al calcio fatto di divertimento e passione.
Abbiamo incrociato le strade e collaborato, abbiamo discusso, abbiamo pensato di mollare. Questo ci ha portati a 7 anni di successi e di gioie. Promozioni e bel gioco poi hanno fatto da contorno ad un progetto che resta e resterà quello sognato da un paio di amici davanti ad una birra.
Come vi spiegate il fatto che proprio Napoli e la Campania siano l’epicentro del calcio popolare in Italia?
Napoli è una città che ha una storia importante per quanto riguarda i movimenti e le lotte sociali. Basti pensare che qui sono nate negli anni Settanta esperienze come il movimento dei disoccupati o realtà che si occupavano di incidere sull'esistente attraverso il lavoro con i più giovani come la Mensa dei bambini proletari di Montesanto. Insomma, è una città che ha sempre avuto un tessuto sociale talmente complesso da anticipare o catalizzare spesso ambiti e pratiche di lotta. Non stupisce particolarmente che il calcio popolare, che è un movimento tanto vasto quanto eterogeneo, abbia avuto input importanti nella nostra città, con tante realtà nate in maniera differente, con modalità di azione e interazione diverse, ma forse proprio per questo, a saper individuare le ragioni alla base di queste sfumature, meritevoli di un'analisi un po’ più approfondita.
Uno dei vostri punti di forza è sicuramente la scuola calcio per i più giovani, la prima scuola calcio popolare d’Italia come affermate con orgoglio. Vi va di parlarcene?
La scuola calcio nasce nel 2014, un anno dopo la prima squadra, perché avevamo bisogno che la gente capisse di cosa si parlava quando si parlava di Lokomotiv, prima di affidarci i propri figli. E nasce dal presupposto che per costruire una società migliore è indispensabile provare a lavorare con i ragazzi, che saranno i cittadini di domani. I punti di forza della scuola calcio sono stati tanti in questi anni (l'accessibilità allo sport per tutti, da un punto di vista sociale ed economico; la centralità di idee e valori come l'antifascismo e l'antirazzismo; un lavoro educativo e pedagogico fatto insieme ai ragazzi parallelamente a quello sportivo) ma forse quello più importante è stato far crescere insieme decine di ragazzi provenienti da contesti sociali estremamente diversi, e che eccetto la scuola (dove comunque la frattura è palese) fin da bambini avevano pochissime possibilità di confronto e comunicazione. Noi diciamo sempre che il bello della nostra scuola calcio è che i due attaccanti sono uno il figlio di un magistrato e l'altro il figlio... di un ladro. Detto questo, in questi sei anni il lavoro è stato durissimo, ma siamo cresciuti tanto da tutti i punti di vista. Abbiamo studiato, ci siamo formati tecnicamente e pedagogicamente, abbiamo costruito reti con le famiglie e con il quartiere, siamo entrati in contatto con almeno 3-400 famiglie in questi anni e abbiamo provato nel nostro piccolo a dare delle risposte.
Tra le realtà di calcio popolare, siete una di quelle che ha un vero e proprio gruppo ultras strutturato, hanno mai avuto problemi per via della loro “identità”?
Più che ultras, ci definiamo un gruppo organizzato di tifosi, rifacendoci molto alle origini del tifo organizzato, nato in maniera spontanea per pura passione per il calcio e per la propria squadra, quando ancora non era nata la parola ultras. L’idea è quella di vivere gli spalti con striscioni, bandiere, pezze rappresentative ma è tutto nato e portato avanti in maniera spontanea e orizzontale, avendo comunque già anni di militanza politica e qualcuno anche una militanza ultras. La nostra idea non è mai stata quella di fare un gruppo ultras. L’essere ultras ha dei “codici di comportamento”, quali ad esempio rubare i vessilli degli avversari, cercare lo scontro. Noi siamo distanti da questo modo di fare, nel senso che l’obiettivo della tifoseria della Lokomotiv è di aggregare, di far conoscere il progetto, di far capire sopratutto che dietro al calcio devono esserci i tifosi, far capire che andare a seguire la squadra non è solo “bello”, ma è fondamentale in un progetto che può essere di un quartiere di città o di un paese in periferia, è trainante sia a livello sportivo che sociale. Nel corso degli anni qualche realtà ci ha seguito, hanno capito, e di questo siamo contentissimi. “Essere esempio”, diceva qualcuno ed è una grande vittoria soprattutto quando ti confronti con realtà del tutto lontane, almeno formalmente, dal mondo dello sport popolare.
Noi crediamo che il calcio popolare sia un’idea ancora ancora da consolidare e plasmare, e lo stesso vale anche per queste tifoserie così ibride, sono idee embrionali da sperimentare. Per questo preferiamo non darci nessuna definizione: siamo una tifoseria che prova a portare avanti una linea. Poi, nel momento assembleare ci confrontiamo, ovviamente non sono tutti momenti felici, però cerchiamo di affrontarli e risolvere i problemi insieme.
In questi anni purtroppo siamo stati spesso oggetto dell’azione repressiva da parte di polizia e FIGC. Il nostro è un tifo colorato, sugli spalti ci andiamo per festeggiare, per godere di quell’ora e mezza di evasione dalla quotidianità, tra torce, fumogeni , striscioni, bandiere, birre e spinelli. Un’idea di calcio che rischia di scomparire causa delle leggi sempre più repressive, tanto è vero che anche nel nostro collettivo c’è chi sta scontando Daspo di due anni per torce e striscioni, tra l’altro uno in memoria di Claudio Volpe, ragazzo morto nel carcere di Poggioreale, e l’altro in ricordo di Dax. Va detto, a proposito di Dax, che naturalmente il nostro progetto è basato sull’antifascismo. Se ci troviamo davanti tifoserie di un certo tipo, non ci facciamo pregare né ci giriamo dall’altra parte.
Come interagite con loro e più in generale come funzionano i vostri meccanismi assembleari? Vi va di raccontarci qualche aneddoto particolare?
Un bell'episodio che vale la pena raccontare, anche in coerenza con quanto abbiamo detto finora, è quello di gennaio scorso, durante la partita con la Vis Frattaminorese, in casa loro. Eravamo i soliti quindici-venti tifosi tra quelli che non si perdono mai una partita, anche quando si tratta di andarsene in giro per tutta la Campania. Non sapevamo bene cosa aspettarci, sapevamo che loro avevano un compatto gruppo di tifosi che andavano anche in trasferta e quindi ci muovemmo ed entrammo al campo tutti insieme.
Dopo circa dieci minuti vediamo entrare nel settore, diviso da quello dei tifosi di casa, un gruppo di ragazzi con una cassa di birre in mano; “Questa è per voi”, ci dicono, e parte l'applauso. Siamo rimasti stupiti dal gesto che prima non ci era mai capitato in tanti altri campi campani. La partita finì in pareggio, ma con qualsiasi risultato avremmo brindato sicuramente insieme al fischio finale. E infatti a fine gara i ragazzi ci invitarono a bere con loro nel bar dove generalmente passavano il post partita, da dove uscimmo... a notte inoltrata, dopo uno scambio di sciarpe e un bel ricordo che resterà a tutte e due le tifoserie!
In conclusione, confermate che questo è solo un arrivederci e che ci rivedremo presto?
Mai abbiamo, neanche minimamente, pensato che il nostro progetto potesse continuare senza il nostro più grande veicolo di comunicazione e aggregazione. Non siamo soliti ad abbandonare. Questo è forse il miglior luogo dove possiamo ancora una volta confermarlo:
La lokomotiv è più viva che mai.
Una volta verdenero per sempre verdenero!
Giuseppe Ranieri