Quella di “perdente di successo” è una di quelle classiche etichette odiose che una volta che ti si appiccicano addosso non ti si tolgono più; generalmente vengono affibbiate alle persone che non scendono a compromessi e antepongono l’etica ai risultati finali da parte di quelli che si comportano in maniera opposta, evitando così di svelare la propria viltà e di interrogarsi sulla reale consistenza dei propri successi, preferendo mantenere le distanze. Difficile sopravvivervi senza cadere in quell’autoassoluzione ai limiti della “serena rassegnazione fatalista” che ti fa diventare davvero un perdente, quasi impossibile. Almeno che tu non sia Marcelo “El Loco” Bielsa.
Lo scorso weekend l’allenatore argentino ha riportato in Premier League una nobile decaduta del calcio inglese, il Leeds United, dopo ben sedici anni in cui sulla panchina dei “Whites” – che nel frattempo conoscevano l’onta della First Division rischiando la bancarotta – si sono seduti ben diciotto allenatori; tant’è che a Leeds con la consueta pacatezza con cui viene affrontato tutto ciò che riguarda il calcio non hanno perso tempo e hanno deciso di intitolargli una strada. Forse la promozione sarebbe potuta avvenire già l’anno scorso, ma dopo che il suo Leeds passò in vantaggio a circa un quarto d’ora dalla fine dello scontro diretto con l’Aston Villa con un avversario a terra, obbligò i propri giocatori a farsi un’autorete, rinunciando a quelle ultime speranze di promozione diretta (anche se la differenza reti gli era negativa) e venendo successivamente eliminato ai play-off.
Già di per sé basterebbe questo a dissipare le voci sulla sua carriera, come se non bastassero i titoli vinti in Argentina col Newell’s Old Boys (che ha deciso addirittura di intitolargli il proprio stadio, tanto è enorme l’impronta che ha lasciato nell’anima del club e dei tifosi) e col Velez Sàrsfield dopo la sua prima esperienza europea o la medaglia d’oro olimpica ad Atene nel 2004 ottenuta con l’Argentina guidata da un implacabile Carlitos Tevez.
Ma di per sé, focalizzare il discorso o, peggio ancora, il personaggio Bielsa sui risultati ottenuti, sarebbe quanto di più errato e scorretto possibile. Non solo perché parliamo di un vero e proprio rivoluzionario dal fascino magnetico, un integralista della panchina che oltre ad avere delle fissazioni maniacali per i dettagli (sostiene di leggere dodici quotidiani al giorno, di aver visionato ben più di 20.000 match e di aver percorso 24.000 km in tre mesi per andare a visionare giovani prospetti) e delle stravaganze, come quando da allenatore delle giovanili assisteva a spezzoni di partite sugli alberi o quella a clamorosa a cui è dovuto il suo soprannome di “Loco” (pazzo): dopo una pesante sconfitta casalinga per 6-0 contro il San Lorenzo (in una stagione che terminerà con la vittoria del campionato) alcuni componenti della barra vanno a contestarlo pesantemente sotto casa e lui esce per affrontarli con una granata in mano minacciando di tirare la linguetta se non se ne fossero andati immediatamente. E ci sarebbero altre decine di aneddoti nei quali, come si confà a personaggi con quest'aura, non si sa mai il confine tra realtà e leggenda.
Ma perché allo stesso tempo stiamo parlando di quello che viene ritenuto da Pep Guardiola (che ebbe l’illuminazione di diventare allenatore dopo una chiacchierata di undici ore proprio con Bielsa) “il migliore allenatore del mondo” e che può annoverare tra i propri “discepoli”, oltre allo stesso Pep, allenatori del calibro di Sampaoli e persino Simeone, il cui “cholismo” è l’esatto opposto di quello stile offensivo. Per non farsi mancare nulla, ha lanciato diversi giocatori come Balbo, Sensini, Rafa Marquez, Heinze, Pochettino e addirittura Batistuta! Dal punto di vista tattico-concettuale, Bielsa è riuscito a sintetizzare quelli che erano i due grandi stili calcistici che imperavano in Argentina e la dividevano quasi con fervore religioso: quello di Menotti, vincitore dei Mondiali del 1978 con un gioco spettacolare e votato all’attacco, e quello di Carlos Bilardo, campione del mondo nel 1986 estremamente difensivista, per dar vita a una terza scuola improntata sull’aggressività a tutto campo, la velocità e i ritmi forsennati, con inserimenti verticali negli spazi ad attaccare senza sosta le ripartenze avversarie in cui il numero dieci ha un ruolo cruciale e deve avere fiato, tecnica e cervello per collegare i reparti.
Tutto sicuramente bello, per carità, ma anche in questo modo, non riusciremmo a cogliere l’essenza dell’allenatore, così come non lo faremmo nemmeno soffermandoci sul suo modulo preferito, quel 4-3-3 capace di diventare all’occorrenza 3-3-1-3 o 3-3-3-1. No, limitarci ai numeri e agli schemi, per quanto essi possano essere ammalianti, sarebbe veniale ai limiti dell’offensivo, d’altronde se lo chiamano “l’allenatore dei ventotto schemi” un motivo ci sarà. Bielsa è molto di più del modesto calciatore e del grande allenatore che possiamo ammirare: è un visionario, un innovatore in cui dentro brucia il fuoco vivo della passione per quello che fa, uno che nel calcio come nella vita prova a imporre il suo gioco nella metà campo altrui.
Come sostengono molti commentatori sudamericani ci troviamo di fronte a “una tendenza ideologico-politico-calcistica-culturale”, un allenatore che aveva una rubrica fissa su “L’Equipe” (dall’emblematico titolo “il catenaccio mi sta antipatico”) in grado di affascinare col suo carisma una neofita del calibro di Sonia Gandhi (che gli scrisse più di una lettera in cui si passava a parlare dal calcio al cinema indiano) e l’attrice Fanny Ardant; capace di vere dispute letterarie addirittura con Nick Hornby (l’autore di Febbre a 90°) e di mantenere un rapporto freddo ai limiti dell’ostilità con Luis Sepulveda, reo di aver accusato Menotti di connivenza col regime dei colonnelli. Proprio queste sue interazioni col mondo della letteratura e della politica, gli hanno conferito la capacità di utilizzare il calcio come metafora della vita:
“Cerco di migliorare la qualità dei miei calciatori provando a farli emozionare ogni volta che giocano. L’attenzione ai più deboli è una strategia. Invece uno dei primi messaggi che ci invia la società è: il più debole è un fastidio. Il rifiuto degli stranieri, o di chi ha pelle di altro colore, nasce dal rifiuto della povertà, perché quando invece lo straniero con la pelle scura ha i pozzi di petrolio o è un turista, lo si tratta in un altro modo… Una squadra di calcio è una società, solo in piccolo, con le stesse logiche del dare e del ricevere”.
Del resto Marcelo, che è nato a Rosario, una città foriera di geni e rivoluzionari come Ernesto “Che” Guevara e Lionel Messi, ma anche di artisti estrosi come Lucio Fontana e Roberto Fontanarrosa, proviene da una famiglia della borghesia progressista che non approvò mai la sua passione per il calcio a tal punto da spingerlo ad andarsene da casa a sedici anni; suo fratello Rafael fu addirittura ministro degli Esteri nel governo di Néstor Kirchner, dopo un passato in cui era stato detenuto e torturato dal regime militare. “El Loco” ha sempre avuto le idee chiare anche in politica pur parlandone marginalmente, visto che è raro sentirlo parlare di altro al di fuori del calcio, ma quando lo fa, non usa mezzi termini: nello scorso autunno ha elogiato il popolo cileno che stava dando il via alla protesta che sta tuttora infiammando il paese definendolo
“un esempio per tutti i paesi che sono trattati ingiustamente dai loro governanti […]. Dimostrano in modo civile e democratico, comprendendo che il voto non è solo un esercizio del potere decisionale del popolo. Il popolo cileno, che viene sempre descritto come moderato, ha dato un esempio di fermezza e ammirevole convinzione”.
O come quando, appena sbarcato a Leeds nel 2018, portò i giocatori a pulire il centro sportivo e raccogliere la spazzatura per tre ore, cioè il tempo che impiega un tifoso per guadagnare i soldi necessari per comprare il biglietto allo stadio, per far capire i sacrifici che fanno i tifosi per stare al loro fianco e che in fin dei conti sono proprio il segreto del calcio (come ha ribadito in questi mesi di partite a porte chiuse), fino alla donazione di 2,5 milioni di dollari al suo vecchio club, il Newell’s Old Boys, che versava in difficoltà.
Bielsa è così, prendere o lasciare: un allenatore fedele a se stesso e ai suoi principi, capace da ct della selezione nazionale di rifiutarsi di salutare il presidente cileno Pinera in un incontro istituzionale, o di mollare tutto per andare a dare l’ultimo saluto al suo fedele amico e collaboratore Luis Bonini venendo così licenziato dal Lille. Principi di cui fa innamorare sia i giocatori che i tifosi, e non è un caso che due piazze passionali ma spietate allo stesso tempo come Bilbao e Marsiglia siano state folgorate dal “Loco” che gli ha fatto vivere stagioni esaltanti in campo e con una pazzesca sinergia fuori, e per i cileni sia quasi un dio terreno tanto per i risultati in alcuni casi straordinari, quanto per l’empatia creata. Quegli stessi principi che lo hanno spinto nel 2011 a rifiutare l’Inter perché aveva già un accordo sulla parola con l’Athletic Bilbao, a rinunciare alla corte di Chelsea o Everton preferendo partire dalla seconda divisione col Leeds per aver carta bianca nel suo progetto; di dare le dimissioni dalla panchina dell’Olympique Marsiglia dopo la prima giornata di campionato (e dopo un grandissima stagione precedente in cui contese fino a poche giornate dal termine lo scudetto al PSG multimilionario, e che comunque era iniziata con una sfuriata contro la sua dirigenza che non gli aveva preso nessuno dei giocatori richiesti). C’è stato anche un momento in cui la sua “locura” stava per sbarcare in Italia, quando nel 2016 alla fine rispettando il suo soprannome decise di non andare alla Lazio dopo aver firmato il contratto, decidendo di ritornare sui propri passi per le prime incomprensioni sul mercato con Lotito o come piace pensare a noi romantici, perché avrebbe capito che quell’ambiente, quel presidente e quella tifoseria non facevano per lui, lo avrebbero fatto sfiorire facendogli perdere il fuoco interiore, finendo per offuscare la sua limpidezza e rendendolo triste e “normale” come un allenatore qualsiasi, di quelli che si possono giudicare solo tramite i risultati e non per quello che trasmette, per il rapporto empatico che sviluppa coi tifosi il cui valore è sempre stato riconosciuto dall’allenatore sostenendo che con gli stadi chiusi il calcio perda tutto il suo fascino.
È per questo e per molto altro ancora che non si sta celebrando un semplice allenatore, ma un modo di intendere il calcio e soprattutto la vita che rifugge dai numeri e dalla liturgia del successo a tutti i costi, uno per cui prima di ogni cosa vengono i propri valori; un combattente (quasi) solitario deciso a renderci quella sensazione estatica di fronte al pallone che si sta irrimediabilmente affievolendo da anni se non da decenni e che trova proprio in pochi coraggiosi come lui gli ultimi difensori; in sostanza uno “Loco” come noi, uno di noi!
Giuseppe Ranieri