Se l’Italia avesse uno scrittore come Anthony Cartwright, Pontedera potrebbe essere oggi l’Iron Town protagonista del suo romanzo (Iron Towns. Città di Ferro, 66th and 2nd, 2017). Un luogo sospeso e per certi versi in cerca di identità, segnato dalle crisi industriali e dalle delocalizzazioni, ma forte di un glorioso e rude passato operaio. Un avamposto fieramente working class in cui il metronomo della vita è stato scandito per un’era geologica dalle sirene delle fabbriche, dai turni di lavoro e dai “colletti blu”. Una città distrutta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale capace però di rialzarsi e di ricostruirsi, diventando una delle protagoniste del cosiddetto “boom economico” degli anni Sessanta. Figlia prediletta di Pontedera e delle sue catene di montaggio è infatti la Vespa Piaggio, uno dei simboli di quel boom sopra evocato ed emblema della vita moderna nell’Italia del dopoguerra, nonché autentico “prodotto tipico” del territorio in provincia di Pisa, incastonato fra l’Arno e l’Era.
Lo stesso nome Pontedera – Ponte sull’Era appunto – tradisce un dna fluviale come di fiumi e ponti erano segnate le Iron Towns inglesi, forti di quell’idea della rivoluzione industriale che poneva alla base dello sviluppo delle factories l’energia idroelettrica e i corsi d’acqua dolce. Città oggi arrugginite nel cuore dal tramonto dell’industria nel Vecchio Continente – e che non a caso, infatti, si assomigliano tutte, con un minimo comune denominatore di malinconia e cemento – e da precise scelte politiche ma da cui trasuda potente una suprema voglia di riscatto.
E se nella mitologia delle “città di ferro” il riscatto assume un ruolo centrale, di riscatto parla anche la vita di un’altra eccellenza prodotta dal “tornio” di Pontedera: il pugile campione del mondo Alessandro Mazzinghi, conosciuto da tutti come “Sandro”. Mazzinghi ci ha lasciato il 22 agosto all’alba, prima di aver compiuto 82 anni, in un sabato afoso di un agosto arido carico di preoccupazioni. Ieri, lunedì 24, la sua “città di ferro” si è stretta attorno ai figli e alla famiglia del campione per tributare l’estremo saluto al campione del popolo e “pugile operaio” come affettuosamente lo chiamava qualche giornalista.
Mazzinghi nasce nel quartiere Bella di Mai nel 1938. Ha un’infanzia difficile, lavora fin dalla tenera età. Povertà e incertezza governano i suoi primi anni, ma la forza della madre e un fratello più grande lo aiutano a tirare avanti. Ama il ciclismo ma sceglie il pugilato perché come disse in un’intervista a Fabrizio Rostelli su Il Manifesto: «Fare il pugilato non costava nulla; avrei voluto correre in bicicletta ma non avevo i soldi per comprarmela, quindi la boxe era l’unica via d’uscita da una vita non facile». Il ring lo sceglie seguendo appunto le orme del fratello Guido pugile, ombra e maestro per tutta una vita. È Guido che gli fa da apripista e poi da gregario. È Guido che gli disbosca la fitta foresta della vita.
Sandro entra in palestra nel 1954 e nel ’58 diventa campione nazionale juniores. Fin da dilettante però, quando entra nella selezione nazionale, davanti a lui trova un predestinato: Nino Benvenuti. È lui il pugile su cui la federazione ha scommesso, è lui il pugile portato alle Olimpiadi e coccolato dai big del pugilato italiano. Mazzinghi attende dietro le quinte il suo turno allenandosi, con disciplina e abnegazione, senza mai lamentarsi.
Nel 1961 passa professionista. Ottiene un importante contratto di sponsorizzazione con la Ignis – altra ditta simbolo del boom economico con i suoi frigoriferi – che lo accompagnerà per tutta la sua carriera, garantendogli una tranquillità insperata per anni. Fra settembre e fine dicembre combatte cinque incontri. Nel 1962 invece sale sul ring 17 volte, qualcosa di impensabile oggi. Spesso disputa due match a distanza di quindici giorni, in alcuni casi combatte anche dopo una settimana dall’ultimo incontro. Un eroe autentico. Uno che non si risparmia. Uno che combatte per migliorarsi, per evolversi.
Il suo anno di grazia è il 1963, quando inizia a frequentare i ring internazionali e supera due pugili importanti come Tony Montano e Don Fullmer, che lo proiettano all’attenzione del mondo. Ormai il “Ciclone di Pontedera” è ai massimi livelli. Lo chiamano così perché ha un ritmo incessante. È un pugile coraggioso, un attaccante. Non gli piace la scherma, piuttosto cerca un testa a testa spregiudicato alla corta distanza. Chi ha più “fegato”, rimane in piedi. La sua ricetta è semplice: pressing instancabile e ritmo forsennato – cardio si direbbe oggi – per minare le fondamenta e sfiancare col lavoro al corpo l’avversario. In attesa del momento giusto per mettere knockout l’avversario.
A soli 25 anni, in quell’anno di grazia 1953, ha la chance mondiale nei pesi superwelter (o medi jr) al limite delle 154 libre (69,854 kg.) al Vedromo Vigorelli di Milano, di fronte al pubblico delle grandi occasioni. Di fronte c’è una vecchia volpe del ring, il campione in carica Ralph Dupas che chiuderà la carriera con un totale di 135 incontri (106 vittorie, 23 sconfitte e 6 pareggi). Dupas è un osso duro, uno che combatte in maniera scaltra, usa molto bene il corpo e le spalle, ed è famoso per “lavorare” anche con la testa. Un pugile “sporco” e proprio per questo molto difficile da affrontare. Fin dall’inizio però è Mazzinghi a dettare i tempi e mettere i colpi migliori. Dupas accetta lo scambio faccia e faccia e in due occasioni riceve dei richiami proprio per testate all’avversario. Il pugile di Pontedera inizia a sanguinare dalle arcate sopraccigliari ma tiene duro e colpisce preciso. Al nono round Dupas è al tappetto per un diretto d’incontro, si rialza ma non è presente a se stesso. Per l’arbitro può bastare così e viene decretato il ko tecnico. Mazzinghi è il campione del mondo.
Il 2 dicembre nella rivincita a Sydney il copione è più o meno lo stesso. La prestazione di Mazzinghi è perfetta e il kot arriva al 13° round dopo due atterramenti. La vecchia volpe Dupas nulla può contro i pugni sodi del toscano.
Tutto sembra procedere per il meglio ma dopo quel glorioso ’63 c’è l’anno nero della vita del pugile toscano. Nel 1964 in una giornata di pioggia, undici giorni dopo il loro matrimonio, Mazzinghi e la moglie hanno un terribile incidente. Sandro viene sbalzato fuori dall’auto, sopravvive ma riporta gravissimi traumi, mentre la moglie Vera non sopravvive all’impatto. In quel momento ovviamente tutto passa in secondo piano: la carriera, il futuro, gli allenamenti. C’è spazio solo per il dolore e per il lutto.
Quando ricomincia con la boxe, dopo un paio di difese alla portata, il 18 giugno del 1965 c’è il primo capitolo della sfida contro Nino Benvenuti. È passato troppo poco tempo dalla tragedia ma la Federazione mette pressione. I due non si vogliono affatto bene. Benvenuti è un profugo istriano, con simpatie di destra e un po’ strafottente. È un belloccio con la faccia da cinema e la mascella quadrata, Mazzinghi invece è un pugile umile, mite, di estrazione proletaria. Incarna l’altra Italia, quella dei campi e delle officine, del sudore, della fame. Ha già la faccia segnata, è stempiato e ha il naso schiacciato, non è adatto al cinematografo, neanche per un ruolo da caratterista (anche se dopo il successo calcherà anche le scene dei film oltre a percorre una discreta carriera canora).
In quella sfida si concentrano i dissapori dell’Italia del dopoguerra, i due modi di vedere un paese e il suo sviluppo. Benvenuti vs Mazzinghi diventa uno scontro di civiltà, una proiezione delle tensioni sottotraccia del paese. C’è il partito di Sandro e quello di Nino, i comunisti da un parte, quelli di destra dall’altra. Mazzinghi non fa propaganda, è mite anche in questo. Glissa, sempre sfuggente senza fare apertamente rivendicazioni politiche, ma sente di combattere per qualcosa che è andato ben oltre lo sport. E poi c’è anche una differenza stilistica e di filosofia del combattimento: «Lui era uno stilista, io un picchiatore», questo ricordava sempre il pugile di Pontedera.
Il primo incontro però è amaro. Il toscano è ancora segnato dal grave incidente, non è al massimo della forma e al sesto round un montante lo mette knockout. Benvenuti è il campione. Il predestinato, il pugile raffinato, scelta del tempo e stile, ha la cintura in vita e sorride.
Sei mesi dopo la rivincita a Roma. Mazzinghi si ripreso, è in forma e si disputano 15 round molto intensi. I colpi arrivano da tutte e due le parti. Il verdetto lascia la cintura nelle mani di Benvenuti ma Mazzinghi sente di aver vinto. L’acredine sportiva diventa quasi un odio viscerale. Solo dopo parecchi anni i due riusciranno a riparlarsi, perché quel 17 dicembre 1965 Mazzinghi sente di essere stato derubato e di aver subito un torto troppo grande. E continuerà a pensarlo per tutta la vita, fin quasi a farlo diventare un’ossessione. Ma non sarà l’unico: quel verdetto lascerà diversi dubbi in molti, troppi, appassionati.
Dopo quella sconfitta però Mazzinghi torna in sella: conquista il titolo europeo contro Yoland Leveque e lo difende quattro volte, di cui una memorabile contro Bo Hogberg in Svezia. Il 26 maggio del 1968 ha di nuovo l’opportunità mondiale contro il granitico coreano Ki Soo Kim, che ha strappato la cintura di campione al nemico di sempre Benvenuti. A San Siro va in scena un incontro meraviglioso. Kim è un pugile che non ha paura e i due non si risparmiano. Secondo molti quello è stato il più bell’incontro mai combattuto in Italia, ancora oggi ineguagliato per la durezza dei colpi e il coraggio “sincero” dei due pugili. Alla fine dei 15 round a spuntarla è Mazzinghi, che è ancora una volta il campione.
La carriera di Mazzinghi si conclude con 64 vittorie (42 ko) e 3 sole sconfitte (due con Benvenuti, un’altra irrilevante), due cinture di campione del mondo e una di campione europeo. Ma quel grande rammarico della sconfitta con Benvenuti continuerà a fargli compagnia sempre, facendolo diventare un fatto personale, un tarlo. Una volta sussurrò all’orecchio del suo avversario di una vita, molto anni dopo quell’incontro: «Tu lo sai che io ti ho battuto. Devi ammetterlo». Perché solo la ruggine può intaccare il ferro. Ma forse anche l’orgoglio.
Filippo Petrocelli