Dopo la morte di George Floyd, lo scorso 24 agosto nel Wisconsin un altro afroamericano è stato colpito sette volte dalla polizia riportando gravi ferite ma riuscendo a sopravvivere. Dopo le scene agghiaccianti di George Floyd che chiedeva di respirare, non si è ancora capito quale sia stata la “colpa” di John Blake. Gli Stati Uniti già piegati dal Covid-19 e dalla susseguente crisi economica derivata dal virus in collaborazione con l’amministrazione Trump, sono nuovamente a ferro e fuoco. Il mondo dello sport non è rimasto indifferente nemmeno questa volta e i giocatori della NBA nel momento più importante della sua stagione, i play off delle finals, hanno deciso di non scendere in campo in segno di protesta. Nei pavimenti di parquet dei palazzetti compare la scritta Black Lives Matter a caratteri cubitali. Eppure per rivedere una protesta del genere bisogna fare un bel salto indietro nel tempo e bisogna andare negli anni Sessanta. Il clima dell’America del tempo non era, purtroppo, molto diverso da quell'America che vediamo ora e per certi versi era anche molto peggio. Era sempre la solita e squallida storia, una storia intrisa di razzismo e prepotenze.
Negli anni in cui lo sport era fenomeno di massa ci fu uno sportivo che lo rese anche un fenomeno culturale e sociale. Era il 1967, si combatteva la sporca guerra in Vietnam, i giovani mandati in guerra erano molti, e molti di essi perdevano la vita nelle battaglie. Muhammad Alì al secolo Cassius Marcellus Clay in quello stesso anno fece una scelta che scosse il mondo intero: si rifiutò di andare a combattere in Vietnam. Il campione del mondo disse in diretta televisiva che non sarebbe mai andato dall’altre parte del mondo per sparare a degli innocenti che non gli avevano fatto niente. Nel gran rifiuto di Alì non c’era solo un sincero pacifismo ma anche una chiara dichiarazione di lotta alla società bianca americana razzista e classista. Lo ripeteva spesso ai microfoni: “volete che io vada a combattere per voi, quando voi non rispettate le mie scelte di vita e non vi schierate mai una volta dalla mia parte... siete voi i miei nemici quando ci negate i diritti civili, quando mi impedite di professare liberamente la mia religione e quando esprimo la mia opinione”. In queste parole dure c’era un grande fondo di verità. Così il pugile di Louisville, che dalla società americana bianca era già abbastanza odiato per la la pelle nera e l'adesione all'islam, con questa scelta di non combattere si era attirato addosso anche le ire del governo statunitense. Ma nonostante tutto Alì era un fenomeno mediatico che quando apriva bocca spaccava in due la società, e così molti giovani bianchi e neri cominciarono a protestare in suo favore, invitandolo anche a parlare nelle università.
In quella scelta c’era una chiara rivendicazione per il mondo afroamericano che da sempre era stato usato come carne da macello negli Stati Uniti. La scelta al pugile costò molto cara perché gli fu tolto il titolo e revocata la licenza per combattere. Dopo tre lunghi anni di battaglie giudiziarie finalmente la Corte Suprema americana riconobbe i suoi diritto di essere un obiettore di coscienza contro la guerra. Nel 1971 Muhammad Alì aveva battuto anche il governo americano e si preparava a tornare sul ring per riprendersi il titolo mondiale ingiustamente toltogli tre anni prima.
Un anno dopo il suo rifiuto, nel 1968, si svolsero i giochi della XIX Olimpiade a Città del Messico. Nell’anno dei grandi sconvolgimenti mondiali, cioè il 1968, nemmeno la massima manifestazione dello sport poté rimane indifferente. Il 1968 fu l’anno della primavera di Praga, degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, della guerra civile e della carestia in Biafra con migliaia di morti per fame, delle impiccagioni di neri in Rhodesia e in Sudafrica, del maggio francese e della dilagante rivolta giovanile. Il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell'apertura dei Giochi, nella piazza centrale di Città del Messico un gruppo di studenti manifestò pacificamente in opposizione alla grossa spesa sostenuta dal presidente Gustavo Díaz Ordaz per costruire gli impianti per gli imminenti Giochi Olimpici. I soldati, non si sa se per ordine diretto del presidente, iniziarono a sparare ad altezza d'uomo. Fu una strage: non venne mai reso noto il numero dei morti, secondo alcuni forse furono addirittura qualche centinaio. Ma questi Giochi Olimpici sono passati alla storia come quelli del podio dei 200 metri piani, quelli di Tommie Smith e John Carlos. Alla fine della gara Tommie Smith aveva vinto e stabilito il record mondiale e John Carlos, suo connazionale, si era classificato al terzo posto. Al secondo posto arrivò l’australiano Peter Norman che si unì a questo pezzo di storia insieme ai campioni americani. Carlos e Smith si diressero verso il podio a piedi scalzi e alzarono il pugno chiuso guantato in nero in segno di protesta contro il razzismo e in risalto delle lotte per il potere nero. Peter Norman invece sfoggiò una spilla in favore dei diritti umani. I due atleti statunitensi ascoltarono l’inno nazionale in silenzio e a capo chino in segno di protesta. Un gesto rimasto scolpito nella storia dell’umanità. Le conseguenze però furono durissime: la carriera dei due atleti si poteva considerare conclusa, furono espulsi dalla nazionale americana. Peter Norman, che al momento della premiazione indossò il distintivo dell'Olympic Project for Human Rights, per questo gesto venne discriminato in patria negli anni successivi e lasciato morire in miseria.
Il 23 settembre 2019 il Comitato Olimpico degli Stati Uniti introdusse con cerimonia Tommie Smith nella Hall of Fame dello sport statunitense, assieme a John Carlos. Un anno prima anche Peter Norman veniva riabilitato dal governo australiano ammettendo il proprio imbarazzo per come il campione venne trattato dalla sua madrepatria. Nell’anno in cui morì Muhammad Alì, il 2016, i grandi sportivi ritrovano la parola sui temi civili e appoggiarono il movimento che oggi conduce la lotta negli Stati Uniti, cioè Black Lives Matter. Morì il 3 giugno 2016 a 74 anni, i funerali si svolsero nella sua Louisville che gli rese omaggio con una folla immensa di bianchi e neri con cartelli dove c’era scritto “The Greatest” (il più grande). Non fu l’addio solo a un campione, ma a un uomo capace di “essere tutti”, come diceva spesso lui “I, WE” (Io, Noi). Cinquanta anni prima, in un giugno di tantissimo tempo fa, la bara di Bob Kennedy aveva attraversato un'altra America, più scarna e desolata. John Carlos e Tommie Smith per fortuna sono ancora con noi e insieme a tanti sportivi che presero parte alle lotte del 1968 oggi sono nuovamente scesi in campo al fianco dei manifestanti. I giocatori di basket hanno deciso di non giocare effettuando un chiaro gesto politico che non si vedeva dalle Olimpiadi del 1968; si può dire che il sacrificio di questi campioni è servito per forgiare questa nuova generazione di sportivi che oggi ha deciso di dire basta ai soprusi.
Marvin Trinca