Nella storia del calcio non c’era mai stato così poco tempo tra la fine ufficiale di una stagione e l’inizio di una nuova, in modo da non poter neanche metabolizzare fino in fondo quello a cui abbiamo assistito. Quasi come se ci fossimo appena alzati dal tavolo da pranzo di una trattoria di bassa lega, e con ancora il pasto da digerire ci apprestassimo a sederci per cenare in un altro locale di cui abbiamo letto solo qualche recensione a dir la verità più interessata che interessante.
Certo, il tutto è da addebitare alla pandemia e al relativo lockdown, occorre sempre ricordarlo per rispetto di chi ha drammaticamente pagato il prezzo più alto, ma sarebbe opportuno che lo avessero ricordato tutti e ad ogni livello, ma d’altro canto pretendere empatia da chi è atavicamente portato a pensare solo ed esclusivamente ai cazzi suoi (fatturati, sponsor, diritti tv eccetera) è come pretendere che un leone diventi vegano.
Così nonostante i nastri di partenza siano stati appena tagliati, gli spunti di riflessione sono già talmente tanti che si sarebbero potuti scrivere diversi editoriali al giorno, salvo poi vederli immediatamente superati dall’evoluzione di ogni vicenda, spesso e volentieri a dir poco grottesca.
Basterebbe ad esempio il caso più fresco quello dell’“esame” (il virgolettato ci sembra doveroso per rispetto nei confronti di chiunque studi veramente e sostenga esami degni di tale nome) di Suarez presso l’Università per Stranieri di Perugia. Com’era facilmente immaginabile in un contesto come il nostro, ancor prima che il bubbone esplodesse in tutta la sua irruenza, ammesso e non concesso che i colpi di scena siano realmente finiti, il giudizio pubblico e le prese di posizione sulla vicenda sin dal suo principio ripercorrevano le faglie del tifo calcistico. Da un lato chi aveva voglia di accusare la società che nel bene e nel male ha monopolizzato il calcio italiano dell’ultimo decennio, grazie anche a tante zone d’ombra, e chi di contro si appellava all’accanimento contro la stessa società, vittima a loro dire dell’invidia di chi non riesce a liberarsi dal tallone di ferro bianconero sul campionato italiano.
Tutto anche abbastanza prevedibile, per carità, l’importante è che non ci si focalizzi sui problemi del nostro sistema istruttivo (come quando si è parlato del Liceo Socrate di Roma, delle minigonne delle studentesse e dell’occhio dei professori, come se il vero problema non fosse che mancano i banchi) e sul fatto che un’istituzione come l’università utilizzi certi criteri di cui Suarez (suo malgrado o meno non è questo l’aspetto fondamentale) è solo la punta di un iceberg chiamato classismo che prevede che il giudizio su una persona cambi in base alle sue possibilità economiche. Sembra quasi una versione, a tratti anche macchiettistica, di quei parrucconi che in tv augurano la galera e che “venga buttata la chiave” a chi fa blocchi stradali (e qui, consentiteci di mandare un grosso abbraccio a Dana!), picchetti fuori dalle fabbriche o anche semplicemente striscioni allo stadio, salvo poi riscoprirsi garantisti se il parlamentare X, o l’avvocato Y (o magari la stessa persona che è entrambe le cose) si ritrova al centro di un’inchiesta della magistratura e sbattuto in galera con accuse decisamente più gravi, appellandosi a quei diritti umani che vengono utilizzati a giorni alterni e a convenienza.
Certo, poi ci sarebbe il fatto, non esattamente trascurabile, che ci sono persone per cui quell’esame ha una valenza davvero imprescindibile, perché non si ritrovano lo stesso conto in banca di Suarez e da quest’esame dipendono le reali possibilità di tentare una vita migliore e con un briciolo di riconoscimento per la propria dignità di essere umano (non pensiamo affatto di essere gli unici che avendo vissuto in un contesto “meticcio” abbiamo visto amici e conoscenti mettersi sui libri a studiare dopo aver sgobbato ore e ore per poter sostenere questo esame), ci sarebbe l’annosa questione del riconoscimento della nazionalità ai figli di migranti nati in Italia, le campagne sostenute e portate avanti come “We Want to Play” e di contro, una lunga tradizione di calciatori che hanno provato ad aggirare quest’inghippo facendosi cogliere con le pive nel sacco, da Dida a Recoba, passando per Luciano-Eriberto. Eppure sembra che sia solo un’anomalia e non un’intera questione articolata male. D’altronde questa è l’Italia!
La stessa Italia in cui dopo che i presidenti delle principali squadre di calcio hanno fatto di tutto per allontanare i tifosi dagli stadi, dal caro prezzi alle dichiarazioni lesive nei confronti dello stesso pubblico, fino all’aver alzato spesso un muro contro muro, con la loro parete costruita coi mattoni dell’incompetenza e col cemento della presunzione e della tracotanza. Che il calcio sia proseguito perché “the show must go on” è un segreto di Pulcinella, che in questa circostanza come in diverse altre degli scorsi mesi, il governo e il potere politico in generale siano stati tirati un (bel) po’ per la giacca abdicando di fatto appannaggio di quello economico anche; e questa cosa potrebbe rivelarsi utile se costituisse un precedente, o meglio ancora un vademecum per tutti e non solo per gli addetti ai lavori.
Invece l’impressione è, sentendo il ministro Spadafora, che il peggio debba ancora arrivare, e paradossalmente questo avverrà con la (parziale) riapertura degli stadi. Posto che possa avere anche un fondamento di logica procedere gradualmente, appare invece molto più cervellotica ad esempio l’idea paventata di vietare l’esposizione degli striscioni, andando forse a completare quella depauperazione del tifo organizzato iniziata coi biglietti nominativi e proseguita in tutti questi anni e che ha trovato nel Covid-19 un insperato quanto valido alleato. Il volantino distribuito dall’FC Internazionale in vista dell’esordio in campionato con la Fiorentina di sabato rende l’idea di quello che sarà, vale a dire un calcio che sembra sempre di più inseguire le proprie imitazioni sugli e-games piuttosto del contrario, con sbandieratori di professione e pubblico selezionato, come se fosse un teatro qualsiasi.
Da parte loro gli ultras, consapevoli di essere neanche tanto velatamente il bersaglio di questa nuova slavina che si sta per scatenare, hanno praticato quello che gli riesce meglio, o quanto meno dovrebbe: presa di posizione netta e inequivocabile a scapito dell’evoluzione del ragionamento in merito, parole d’ordine chiare e concise, comprensibili da parte di tutti. Che poi, con ogni probabilità ci ritroviamo di fronte a quello schema collaudato già in altre battaglie dagli esiti non esattamente esaltanti, in base al quale qualcuno partorisce l’idea e tanti altri si accodano acriticamente, vuoi per avere visibilità, vuoi per prendere la palla al balzo e nascondere egregiamente le nefandezze di tante situazioni allo sbando, o anche perché non si riescono a elaborare posizioni proprie e originali, il discorso cambia di poco. Tuttavia, al di là dei ragionamenti astratti, almeno in questo caso non sembra il caso di fargliene una colpa, d’altronde senza striscioni e bandiere, senza lo stare gomito a gomito costituendo così quella “macchia rumorosa” e presumibilmente senza partire in trasferta, che senso ha andare allo stadio e definirsi ultras? Ben venga, nonostante i già citati effetti collaterali, anche la solidarietà di chi, per questioni di proporzioni, non è attualmente toccato da questi problemi. D’altronde, per quanto questa posizione possa avere dei limiti e palesare delle superficialità, bisognerebbe fare pace con la realtà e arrendersi all’evidenza che l’ultras non è quel soggetto rivoluzionario che tanti auspicavano e, salvo qualche rara eccezione, non ha la capacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente sulle contraddizioni che ci attanagliano, anzi ormai spesso ci ritroviamo di fronte più che altro a un fenomeno di costume, a tratti quasi qualunquista. Anche perché, a dirla tutta, anche quei soggetti sociali e politici che hanno provato a trovare il bandolo della matassa in questi mesi particolari (tra cui molti compagni che stimiamo) nel migliore dei casi hanno fatto un buco nell’acqua, mentre nel peggiore hanno preso dei veri e propri abbagli colossali.
Certo, il rischio concreto è l’estinzione, ma meglio farla da sé che continuare a scendere a compromessi e non fare altro che rallentarla a costo di perdere anche quel residuo di orgoglio e dignità. Anche perché se la controparte è composta da quei presidenti che hanno dimostrato di non avere il benché minimo rispetto, non solo verso quella “plebaglia” che va allo stadio, ma anche verso i suoi “pari”, da presentarsi coi sintomi del Covid-19 alla stesura dei campionati senza comunicare nulla, se non tardivamente, o quelli che in piena pandemia facevano allenare di nascosto i propri calciatori convinti di poter vincere il titolo, salvo poi fare i conti con la dura realtà, beh è difficile non appellarsi a quella politica del meno peggio che, comunque la si guardi, ha fatto diventare peggiori anche noi e le nostre esistenze tenute sempre sulla corda dal fatto che “il peggio deve ancora arrivare”.
Giuseppe Ranieri