Uno degli effetti collaterali del calciomercato è il clamore che suscitano certi trasferimenti vissuti alla stregua di un vero e proprio tradimento dai tifosi “abbandonati” che, come la Medea di Eschilo, antepongono a qualsiasi cosa l’odio e il sentimento di vendetta nei confronti del loro ex beniamino.
D’altronde, in Italia di cessioni di giocatori duramente contestate dalla tifoseria, e non solo, qualcosina ce ne intendiamo. Le persone con qualche anno in più non avranno difficoltà a ricordare la vera e propria rivolta che accompagnò nel 1990 la cessione di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus (motivo per cui quei giornalisti che fanno finta di meravigliarsi per qualche insulto social piovuto addosso a Chiesa dimostrano semplicemente di essere alla canna del gas e di non sapere più cosa inventarsi per qualche visualizzazione), nonché le difficoltà emotive affrontate dal “Divin Codino” ogni volta che doveva recarsi a Firenze, culminate nel 1991 quando si rifiutò di tirare un calcio di rigore contro la sua ex squadra.
Addirittura in un caso le pressioni della piazza riuscirono davvero a bloccare un trasferimento, era il 1995 e le ire dei tifosi laziali bloccarono il passaggio di Signori al Parma. Sarebbe errato supporre anche che si tratti di un vezzo esclusivamente italiano, come dimostrano i casi dell’ormai famosissima testa di maiale lanciata dai tifosi del Barcellona nei confronti dell’ex beniamino Luis Figo, passato nel 2000 al Real Madrid, o del portiere Manuel Neuer, passato nel 2011 dallo Schalke 04 (club di cui era tifoso, frequentando assiduamente anche gli ultras della squadra della Ruhr) per approdare al Bayern Monaco; e chissà quanti altri esempi ci sarebbero.
Ma sicuramente, il fatto che a osteggiare un trasferimento sia proprio una federazione nazionale è una cosa molto meno frequente e un po’ più delicata, soprattutto per via del contesto specifico.
Infatti, a parte le normative per il Covid-19, la grande novità con cui è iniziata questa stagione della Ligat ha’Al, il massimo campionato di calcio israeliano, è stata la presenza nelle fila dell’Hapoel Hadera di Abdallah Jaber, un ventisettenne roccioso difensore centrale che è anche uno dei pilastri della nazionale palestinese con cui a partire dal 2014 ha collezionato ben cinquantasette presenze, non poche per una nazionale con una storia tanto recente quanto tribolata, e che in precedenza aveva disputato sette stagioni nel campionato della West Bank, suddivise tra Hilal Al-Kuds e Ahli Al-Khalil.
Jaber è un arabo israeliano come gli altri suoi compagni di nazionale Shadi Shaban, Rami Hamadeh e Mohammed Darweesh, è dotato di doppio passaporto essendo nato a Tayibe, situata tra la città israeliana di Netanya e quella palestinese di Nablus; ma contrariamente a quanto si possa immaginare e a quanto siamo abituati alle nostre latitudini, in cui i doppi passaporti costituiscono una sorta di passepartout per aggirare lungaggini burocratiche, questo particolare non gli è stato affatto d’aiuto, anzi. Infatti, nonostante diverse richieste ricevute dal più blasonato campionato egiziano (nel 2016 con l’Al Mokawloon Al Arab e l’anno successivo con l’Al-ittihad) la federcalcio egiziana ne annullò i trasferimenti, proprio a causa del suo passaporto israeliano; per avere un breve sunto di come sono declinati calcisticamente i rapporti tra Egitto e Israele, basterebbe ricordare le inequivocabili prese di posizione da parte di Mohamed Salah, quando con la maglia del Basilea si rifiutò di stringere la mano ai calciatori del Maccabi Tel-Aviv nel 2013, o quando più recentemente, già in forza al Liverpool dichiarò che se i reds avessero ingaggiato l’israeliano Dabbur, avrebbe chiesto la cessione.
Com’era facilmente immaginabile, la reazione da parte dei palestinesi che hanno vissuto questo trasferimento come un vero e proprio tradimento, non si è fatta attendere. Non solo tramite le accuse dei tifosi sui social che hanno riversato tutto il loro risentimento nei confronti del difensore attraverso minacce di morte e il lancio di anatemi vari, come d’altronde accade quotidianamente in ogni contesto analogo: fatte le dovute proporzioni è quello che sta accadendo anche in Italia dopo il trasferimento di Chiesa dalla Fiorentina alla Juventus; ma la reazione più rumorosa è quella che è giunta dai vertici della federazione palestinese che hanno deciso di escludere a vita il calciatore dalla selezione nazionale, mentre di contro in Israele si è addirittura parlato di apartheid da parte dei palestinesi, per la serie “oltre al danno la beffa”.
Queste prese di posizione hanno scosso l’atleta che nel migliore dei casi ha dato prova di ingenuità lamentando in un’intervista la sua posizione di arabo-israeliano poiché per i palestinesi lui non sarebbe un vero arabo, così come gli israeliani allo stesso modo non lo reputano uno di loro, e che non si aspettava una simile reazione, come se non avesse fatto parte di quella lega che ha subito infinite interferenze da parte di Israele, come ad esempio il rinvio della finale di Palestine Cup dello scorso anno senza una reale motivazione (giusto per non sconfinare nel campo socio-politico perché altrimenti non ne usciremmo più…), o come se ci trovassimo di fronte a una delle pochissime persone ancora convinte che il calcio e la politica non abbiano nulla a che fare, un mantra ripetuto stancamente anche dalla FIFA, a cui ormai non credono nemmeno i suoi propugnatori originari.
Del resto, un vecchio adagio diceva che chi non sta da una parte o dall’altra della barricata è esso stesso la barricata e trattandosi di un difensore, magari ci si abituerà di buon grado a esserlo.
Giuseppe Ranieri