Che il re fosse nudo era chiaro già da tempo, così come appariva ugualmente chiaro che l’architettura neoliberista avrebbe cominciato a scricchiolare pericolosamente; non in Europa, dove un mix di repressione tecnologica e solide reti clientelari, pur con fatica, riescono a garantire la tenuta dello status-quo (chissà ancora per quanto…), ma laddove era convinta di giocare in casa, o meglio nel proprio “giardino di casa”. Quel Sud America ancora capace di mobilitarsi e reagire colpo su colpo a ogni suggestione golpista delle classi dominanti e delle élite neoliberiste, proprio quando erano convinte di aver pacificato il continente tra un Guaidó di qua e un Bolsonaro di là.
Così, neanche il tempo di rallegrarci per la storica affermazione del popolo cileno, che il 25 ottobre con il referendum sanciva una rottura netta col tragico passato della dittatura di Augusto Pinochet e col suo tentato epigono Piñera, col 78% del voto a favore del ripudio della costituzione del 1980, che a distanza di pochi giorni, precisamente dal 15 novembre, la scintilla accesa nella prateria del subcontinente è divampata in un altro Stato, in cui una storia travagliata sfuma senza confini ben delineati in un presente a tinte fosche. Ci riferiamo al Perù, un paese che vive un declino che sembra inarrestabile e risale all’instaurazione delle dittatura di Fujimori, e che è stato ulteriormente aggravato dalla pandemia.
Sicuramente, senza voler cadere in un grossolano determinismo, le differenze sono molteplici e alcune anche molto vistose, anche se questo non è necessariamente un male: a quanto sembra almeno in questo primo momento i contestatori non hanno una piattaforma di rivendicazioni ben definita dopo aver ottenuto le dimissioni del presidente Merino (durato in carica solo cinque giorni e succeduto a Vizcarra, immischiato fino al collo in un’inchiesta per corruzione) e di ben tredici ministri, questi ultimi in seguito alle violenze poliziesche. Invece l’atteggiamento delle forze armate peruviane si è rivelato molto più solidale al proprio popolo di quanto non lo fu quello delle loro omologhe cilene, dei veri e propri cani da guardia dell’establishment, e un comunicato il Capo del Comando Congiunto delle Forze Armate Peruviano ha dichiarato testualmente che metteranno tutti i loro mezzi e le loro capacità nella difesa del popolo. Anche la stampa nazionale, a differenza di quella del resto del Sud America imbrigliata dai potentati economici, riporta senza censura quanto sta avvenendo nelle strade delle principali città del paese.
Ma ci sono anche diversi punti in comune, utili per cominciare a formulare delle proposte interpretative a tutto tondo, a partire da una nuova stagione di politicizzazione degli spazi di pubblica discussione che ha generato un grado di consapevolezza e autocoscienza quasi inedito per il paese e ha portato a una critica tout court del neoliberismo, in quello che ancora risulta essere un movimento impolitico, ma che proprio grazie alla base trasversale è riuscito ben presto a diventare una spina nel fianco dell’establishment. Ma non va sottovalutato neanche il coinvolgimento delle barras e dei calciatori.
Infatti, soprattutto in seguito all’uccisione di due manifestanti durante le prime ore degli scontri, Inti Sotelo e Bryan Pintado, sono stati diversi i calciatori – dal difensore del Celta Vigo Renato Tapia all’ex attaccante del Bayern Monaco Guerrero – a parteggiare per il popolo mediante commenti pubblici sui propri social network. Inoltre, tra i primissimi a scendere in piazza per esprimere la propria rabbia ci sono stati i tifosi organizzati delle principali squadre della capitale – Alianza de Lima, Sport Boys, Sporting Cristal e Universitario (quest’ultima presumibilmente quella più marcatamente antifascista e con una cospicua presenza femminile). Questi si sono incontrati nelle strade senza darsi un appuntamento preciso e pur senza arrivare a una tregua formale, in un contesto di “tutti contro tutti” in cui praticamente non esistono amicizie tra le tifoserie, si sono messi alla testa della protesta per difendere materialmente l’incolumità dei manifestanti e delle classi subalterne, come hanno dichiarato essi stessi, e per declinare nel linguaggio universale della rivolta il malessere di una generazione in cui la precarietà la fa da padrona in ogni aspetto della vita di contro agli agi vissuti dalle classi abbienti.
Come riportano i network di movimento sudamericani che hanno avuto modo di intervistare uno dei principali attivisti dell’Extremo Celeste (dello Sporting Cristal), le tifoserie peruviane hanno preso chiaramente ispirazione da quanto avvenuto l’anno scorso nel vicino Cile, una formula che alla lunga ha portato al raggiungimento di considerevoli traguardi che vengono presi come esempio a Lima.
A questa mobilitazione ha fatto eco un comunicato della Rete Internazionale di Calcio Popolare e Ribelle del Sud America che si concludeva con le seguenti parole:
«Siamo solidali con il coraggioso popolo peruviano che esercita il proprio diritto alla protesta sociale e alla resistenza alle violazioni dei diritti e ai governi de facto senza legittimità.
La nostra lotta ruota intorno al calcio ribelle e popolare, ma anche alla giustizia sociale e alla resistenza, per cui denunciamo questi sfortunati eventi, accompagniamo i manifestanti, riteniamo il governo peruviano responsabile dei crimini commessi ieri sera e ciò può accadere, e ci uniamo a tutti gli atti che vengono compiuti dai compagni peruviani».
Tutto ciò a dimostrazione del fatto che ci troviamo di fronte a quello che sembra sempre di più un copione consolidato, non solo nel subcontinente, ma in diversi angoli e scenari di rivolta globale, vale a dire la partecipazione in forze dei gruppi ultras, che oltre ad avere un ruolo concreto e materiale nella difesa della piazza assumono anche un forte valore simbolico e di coinvolgimento per il resto dei manifestanti, sia per il fatto di essere in grado di mettere da parte rivalità a volte ancestrali per il bene comune, che per il coraggio che riescono a infondere nella gente comune e che mai come adesso, in un periodo in cui la polarizzazione ci viene quasi imposta dall’avversario, soltanto riscoprendo quell’estremismo che congenito negli ultras, saremo in grado di rispondere colpo su colpo. Con ciò ovviamente non stiamo facendo una difesa a spada tratta della categoria (anche perché ci troviamo davanti a un tipologia da sempre allergica dalle difese d’ufficio e come vi racconteremo nei giorni successivi parlando di quanto è accaduto recentemente a Lipsia in Germania, non necessariamente la discesa in campo degli ultras avviene al fianco delle istanze progressiste), ma senza necessariamente cercare di indirizzare un intero movimento secondo le nostre proiezioni mentali, non si può non tenere in conto la capacità di mobilitazione e le rivendicazioni, a volte spicce ma proprio per questo realmente popolari, di un universo – che ci è allo stesso tempo vicino e distante – con cui sarà sempre più necessario confrontarsi.
Giuseppe Ranieri