Footballization è il documentario vincitore dell’Offside Football Film Festival 2020, la kermesse indipendente di lungometraggi e cortometraggi sul calcio, sul mondo e sulle sue diversità – come la definiscono gli organizzatori.
Footballization è un prodotto filmico di alto spessore ed è difficilmente classificabile come puro documentario. La sua qualità narrativa e visiva ne fa un gioiello raro che dovrebbe essere mostrato prima di tutto per i contenuti che porta, ma allo stesso anche per il modo con cui lo fa. Questo progetto diventerà un punto di riferimento per tutti quelli che vorranno approcciarsi al documentario sportivo.
Per capire meglio la genesi e l’evoluzione di questo progetto abbiamo intervistato Stefano Fogliata, il ricercatore bresciano che è stato la mente che ha pensato Footballization.
Le sue parole non sono mai banali e ci permettono di aprire una porta diversa sul Medio Oriente. Il suo è uno sguardo laterale che ci apre delle prospettive inaspettate sul Libano e sulla situazione dei profughi palestinesi, che vivono da decenni in quel paese.
Perché Footballization? Spiegaci brevemente come e quando nasce il bisogno di raccontare che cosa è il Libano attraverso il calcio
Il documentario nasce da una mia ricerca per il dottorato. Ho vissuto 4 anni in Libano dal 2014 al 2018. Fino dal 2015, un anno dopo il mio arrivo, mi chiedevo come provare a raccontare un Libano fuori dagli schemi a cui eravamo abituati. Un po’ per caso sono incappato in questo campo da calcio. L’unico campo da calcio privato in un campo profughi in Medio Oriente. Quello è stato uno degli attimi che mi ha sconvolto, perché ti rendi conto subito di essere arrivato in un posto che non è governato dalle Nazioni Unite o solo dal mondo delle ONG. Lì non ci sono i soliti banner dove leggi che “questo campo è finanziato dall’organizzazione x e y” ma gli unici poster che vedi, in qualsiasi angolo del campo, sono quelli di Messi e di Cristiano Ronaldo. Quel campo mi ha fatto riacquistare quella sorta di quotidianità che non si vede mai in Libano. In maniera naturale è nata la filiazione con questa squadra di calcio. Ecco il mio scopo era di raccontare questa storia in termine divulgativo. Mi han contattato i due registi, Furiassi e Agostini, e siamo partiti.
Vedendo il documentario sembra che il calcio non sia solo uno strumento per raccontare altro e in un mondo in cui le notizie si consumano nello spazio di un attimo, raccontare una storia attraverso un documentario, che invece ha tempi lungi di realizzazione e fruizione, è stata una scelta coraggiosa
Il calcio non è solo uno strumento. Titolo, trama e narrazione ruotano attorno al calcio, perché abbiamo voluto tenerlo come fulcro di tutto. Uno sguardo sul Libano come se fosse una partita di calcio, in cui ci sono regole scritte e non scritte e molto passa attraverso quelle che sono le regole non scritte. C’è una sorta di continuo rimescolamento di ruoli e posizioni di forza, un po’ come appunto in qualsiasi altro campo da calcio. Raccontare la vita vera, questa quotidianità attraverso un documentario, ci ha permesso di restare lì per anni – i registi per diversi periodi – e di raccontare qualcosa che non ha nulla di eccezionale, ma è “normale” nei giocatori e nelle dinamiche di gioco. Il Libano è un enorme campo da calcio su cui investono tante partite. A noi interessava la partita degli ultimi che si raccontano, ma non in quanto ultimi, ma come calciatori di una serie considerata ultima e di periferia.
Footballization è soprattutto un gran bel prodotto filmico. La fotografia, il racconto visivo, sono parte fondamentale dei grandi prodotti che diventano estremamente godibili da vedere. Avete dimostrato che si può fare buon cinema documentaristico anche parlando di calcio. Hai in mente progetti futuri simili?
Unire la mia passione smodata per il calcio e la mia conoscenza del contesto con 2 registi come Furiassi e Agostini – Francesco Furiassi aveva già lavorato nel mondo del documentario tra sport e sociale, Francesco Agostini di calcio non sapeva niente e non sa nulla – ci ha permesso di guardare al progetto come un vero film documentario e non come un servizio giornalistico. L’attenzione ai dettagli, alla fotografia è venuto fuori in maniera naturale, proprio perché per loro quello che colpisce sono i colori, le storture e tanti ambienti che non siamo più abituati a raccontare. Un campo di calcio dove ci sono centinaia di bambini con quella situazione architettonica attorno. Non è stato facile da un punto di vista materiale costruire questo racconto, perché molti posti sono sotto l’occhio del ciclone, sono luoghi molto sensibili e controllati, con reparti militari che controllano lo spazio e non sono amichevoli rispetto a chi porta la telecamera. Girare i campi con la telecamera porta sempre qualche difficoltà.
Il premio a Offside è meritato. Avete presentato il documentario ad altri festival o pensate di farlo?
Contentissimo perché seguo il festival da molti anni e ho sempre pensato che sarebbe stato bello partecipare con qualcosa di mio. Perciò già quando il film è stato accettato, ero entusiasta. Mi sono visto riconoscere l’intento principale che era quello di raccontare il calcio. Footballization ha partecipato a innumerevoli festival, questo è il secondo premio dopo quello al Festival Cortoeacapo. Sono onorato di Offside perché riconosce la genealogia dello stesso titolo, mi ripeto ma per per me è un passaggio fondamentale: il calcio è il cuore di questo lavoro.
Qual è il pubblico che tu vorresti guardasse Footballization?
Prima di tutto è rivolto a chi ama il calcio. Come dico io stesso nel documentario: “Quando uno guarda Footballization non si aspetterebbe mai un film documentario legato al contesto medio-orientale e uno se lo guarda proprio perché non parla del calcio in prima linea”. Poi c’è un secondo pubblico e prendo come esempio mia madre, una persona fuori da qualsiasi esperienza pregressa o interesse rispetto alle tematiche medio-orientali. Mia madre è il target come per dire “ti racconto che cosa tuo figlio ha fatto negli ultimi anni ma soprattutto prendo te come esempio per tutte quelle persone che non riusciamo a coinvolgere quando si tratta di raccontare un Medio Oriente diverso da quello che ci viene raccontato sotto l’ottica sempre del fanatismo, della guerra e della violenza”.
Arrivare a quel tipo di pubblico è una bella sfida, ma questo documentario può raggiungere l’obiettivo che ti sei prefissato. A questo punto nasce una domanda ovvia ma necessaria: perché sei andato in Libano?
In Libano ci sono finito con un progetto di servizio civile, ma non ci sono andato perché coinvolto per un progetto, mi ci sono ritrovato. Ho vissuto dei periodi precedenti in Palestina, nell’ambito della solidarietà internazionale, a un certo punto sono stato espulso e così mi sono ritrovato davanti a una scelta: o tornavo in Italia o trovavo un’altra soluzione. Il mio desiderio era quello di continuare a lavorare con i profughi e mi sono spostato in Libano. Dopo qualche tempo che ero lì ho mollato l’ambito della solidarietà per dedicarmi alla ricerca e al calcio e tutto è venuto di conseguenza.
Come si sta vivendo la pandemia in Libano?
Nell’ottobre del 2019, la Rivoluzione ha creato tanto entusiasmo. I libanesi sono scesi in piazza chiedendo con forza le dimissioni della classe politica più anziana. Lo scoppio della pandemia ha impedito che fossero risultati netti. Al momento i rischi socio-economici sono elevati. Il paese è in ginocchio. Nel primo lockdown il mondo produttivo si è bloccato e la gente moriva letteralmente di fame.
Il tuo amore per il Gioco, viene fuori da ogni parola. Ultima domanda: cosa rappresenta il calcio per te?
È la prima volta che mi ritrovo a rispondere a una domanda come questa, ma che è la chiave di tutto. Con il calcio ho sempre avuto un rapporto spasmodico e di attaccamento rispetto a quello che è il collettivo, la maglia, un approccio che nasce dalle squadre di calcio nei paesini e dal calcetto con gli amici. Il calcio è quella che cosa che diventa sempre meno intrattenimento, che diventa pratica quotidiana e che è sempre più dimensione collettiva che può prendere tantissime pieghe ma che nel mio caso è una dimensione che mi ha permesso di raccontare il Libano proprio perché tutti i giorni dopo l’allenamento si parlava di calcio. Mi son ritrovato in un ambiente in cui ho pensato, dopo tanti anni, “sono a casa”. La casa che è data da un quotidiano che è quello che ti fa vivere esattamente con le stesse dinamiche di quella in cui sei cresciuto. Ecco se dovessi definirlo con una parola il calcio è “casa”, quell’ambiente sociale in cui mi trovo come tifoso sulle tribune del Rigamonti a tifare il Brescia, ma anche quando gioco con la squadra degli amici di una vita, o ancora quando divento narratore all’interno di un contesto che all’inizio era altro ma poi diventa una casa molto allargata. Queste cose sono per me il calcio.
Intervista di Dario Focardi
Per vedere Footballization questo è il link: https://www.openddb.it/film/footballization/
CREDITS
Footbalization – regia di Francesco Furiassi e Francesco Agostini – soggetto: Stefano Fogliata – con Stefano Fogliata, Lorenzo Forlani, Louay Rahma, Nassar Mohammad, Haji Abed – colonna sonora: Francesco Agostini, Khebez Dawle, Montecarlo Band – Produzione: Tr3sessanta – Animazioni: Francesco Zanotti – Distribuzione : Mescalito Film, 2018 – Durata: 76 minuti