Purtroppo la storia del calcio è tristemente costellata da tragedie e morti sugli spalti. Nel corso degli anni ce ne sono state davvero tante e in ogni angolo del globo, e alcune di esse sono entrate prepotentemente nella nostra memoria a trazione eurocentrica, non fosse altro per la cornice dell’evento in cui si sono verificate – e ovviamente il primo pensiero va alle vittime dell’Heysel nel 1985, o a quelle di Sheffield del 1989 – come se morire per una finale di Coppa dei Campioni o una semifinale di FA Cup valesse di più che farlo per un Sambenedettese-Matera di serie C1 (nel 1981), o che farlo nella patria del football fosse diverso che farlo in uno stadio del Ghana (ad Accra nel 2001) o del Perù (Lima 1964).
In ogni caso, sfuggendo al rischio sempre presente nelle ricostruzioni storiografiche di appiattire tutte le narrazioni sul proprio idealtipo, a prescindere che abbia pertinenza o meno con la realtà circostanziale, probabilmente non ce n’è un’altra che abbia allo stesso tempo un carico simbolico-politico e un alone perdurante di mistero con sfumature complottistiche di quello che è passato alla storia come “il massacro di Port Said”; una tragedia che in un colpo solo ha gettato un’ipoteca sul movimento ultras egiziano, sul calcio nel paese dei faraoni e anche sugli sviluppi politici di quella che resta probabilmente la più importante rivoluzione incompiuta di questo scorcio di inizio millennio. Ma andiamo con ordine.
Il 2 febbraio del 2011 a Port Said è previsto un match molto caldo tra i padroni di casa dell’Al Masry e la squadra della capitale dell’Al Ahly, ma allo stesso tempo è occasione dell’ennesimo confronto tra gli ultras locali, i Green Eagles, e i loro acerrimi rivali degli Ultras Ahlawy (UA’07, all’epoca il gruppo ultras più numeroso dell’intera area maghrebina), due dei gruppi più attivi e famosi del paese. Inoltre parliamo anche di uno scontro tra una rappresentante della capitale, e soprattutto dei suoi ceti popolari, e una del nord del paese, nella regione del Canale di Suez, con una forte presenza nasseriana al proprio interno. Una rivalità che ha delle ben connotate ragioni socio-politiche che risalgono a ben prima della nascita degli ultras nel paese nordafricano, esattamente in concomitanza della crisi del Canale di Suez che si consumò tra la fine del 1956 e l’inizio del 1957, quando Israele, spalleggiato da Francia e Gran Bretagna, occupando il canale provocò una migrazione di massa da parte degli abitanti della zona, la maggior parte di essi diretti verso Il Cairo, accontentandosi di sistemazioni di fortuna e, nella migliore delle ipotesi, di lavori umili che accrebbero la forbice socio-economica coi cairoti che da allora cominciarono a considerare quest’ondata di migranti generalmente come cittadini di Serie B.
Ma indubbiamente, pur essendo certi stereotipi duri a morire, era passato davvero tanto tempo e soprattutto era profondamente mutato il contesto nazionale: l’anno precedente il paese era stato attraversato da quel fenomeno definito forse un po’ troppo frettolosamente come “primavera araba”, sperimentando probabilmente la sua versione più cruenta e contraddittoria, che aveva prodotto sì la cacciata di Mubarak, ma che proprio in seguito a essa aveva innescato una serie di sommovimenti che avrebbero trasfigurato profondamente il volto politico e quello sociale del paese, con le forze che fino ad allora erano state alleate che cominciano a fronteggiarsi per accaparrarsi le posizioni di potere, senza dimenticare la presenza ancora ingombrante di tanti nostalgici dell’ex presidente, che pur essendo apparentemente scomparsi si sono mimetizzati nelle retrovie, ancora capaci di temibili colpi di coda.
Pur non essendo particolarmente politicizzati, nella capitale gli UA’07 (insieme ai tradizionali rivali dei White Knights dello Zamalek) avevano avuto un ruolo di primo piano nella difesa delle barricate di Piazza Tahrir e nell’organizzazione delle controffensive nei confronti delle forze dell’ordine, e per le capacità di mobilitare in maniera informale molta gente in poco tempo, a tal punto da far conoscere e addirittura provare simpatia – se non una vera e propria empatia – per la figura dell’ultras a una nazione che prima di questi rivolgimenti ne era pressoché all’oscuro. Di contro Port Said, a differenza delle altre due città principali della regione, Ismail e Suez, si era distinta per non essere stata coinvolta nelle mobilitazioni rivoluzionarie (anche se la situazione sarebbe cambiata nel prosieguo dell’escalation di proteste, all’epoca ancora lontana dall’esaurirsi).
A rendere il tutto ancora più aggrovigliato, quello che in un contesto normale dovrebbe essere il “piatto forte” della contesa, ovvero la rivalità tra due dei gruppi ultras più quotati del paese, forse una delle più feroci dell’intero Nordafrica. Infatti, a ricevere gli UA’07 e i Devils (l’altro gruppo ultras dell’Al Ahly) ci avrebbero pensato i Green Eagles, con cui già nell’anno precedente a luglio si erano registrati scontri di una certa entità, che all’epoca avevano nelle invasioni di campo con annessa corsa verso il settore rivale una delle specialità della casa e che giusto qualche settimana prima li aveva visti infliggere una dura lezione agli ultras dell’Al Ittihad, il club di Alessandria d’Egitto.
Il match si disputa il primo di febbraio, al termine di una settimana di mobilitazioni su scala nazionale che nelle intenzioni avrebbero dovuto celebrare il primo anniversario della rivoluzione, dove forse mai come allora erano emerse le spaccature tra le varie anime della rivoluzione: da una parte il Consiglio delle forze armate (SCAF) al potere e il parlamento dominato dai Fratelli Musulmani, che miravano a enfatizzare la ricorrenza e parlavano di “rivoluzione compiuta” che andava solo consolidata con delle istituzioni forti e stabili. Dall’altra, e di tutt’altro avviso i movimenti giovanili, tanto i gruppi più prettamente militanti quanto quelli prepolitici (come appunto gli ultras in generale che avevano come unico comune denominatore ideologico la loro indole antiautoritaria e poco altro…) che continuavano a scendere nelle strade, sentendosi frustrati per la mancata realizzazione delle suggestioni e delle promesse pre-rivoluzionarie, oltre che per una perdurante precarietà che attanagliava e inghiottiva intere generazioni. In una di queste proteste, fu ucciso Muhammad Mustapha Kareeka, un membro degli UA’07, fattore che ovviamente fece infuriare il gruppo che a partire dalla successiva partita (in casa contro il Masr El Makassa) si schierò apertamente contro lo SCAF con cori e striscioni.
Non si può quindi affermare che gli incidenti che funestarono la giornata del primo di febbraio (e con essa il ciclo delle proteste sociali egiziane) siano giunti come un fulmine a ciel sereno. Qualora ci fosse stato bisogno di un’ulteriore conferma, le cronache riportano di scontri diffusi nella città costiera già all’arrivo dei primi pullman di tifosi ospiti, bersagliati dal lancio di oggetti dei tifosi locali.
In ogni caso, mentre la partita si disputa in campo, per non farsi mancare nulla, sugli spalti come da copione le tifoserie si stuzzicano a più riprese con cori e striscioni offensivi: gli ultras ospiti ironizzano sul grande mercato dell’usato di Port Said, mettendo in dubbio attraverso un gioco di parole la virilità dei locali, mentre i padroni di casa si limitano a tradizionali minacce e offese che provano a concretizzarsi già verso la fine del primo tempo, quando parte la prima carica dentro lo stadio da parte dei Green Eagles.
Ma è nel secondo tempo, e precisamente dopo la rete del 3-1 per l’Al Masry in pieno recupero, che si consuma la tragedia: quella che inizialmente sembra essere una pacifica invasione di campo da parte dei sostenitori locali per festeggiare la vittoria dei propri beniamini ben presto si trasforma in un assalto all’arma bianca verso la curva gremita di tifosi ospiti; ma come abbiamo visto, non si tratta di una novità. Quello che invece sorprende è il lassismo con cui la polizia prova a respingere la carica degli ultras di casa, quasi come se facessero finta. Intanto dal settore ospiti ci si accorge forse un po’ tardivamente delle situazione e soprattutto le persone che non costituiscono “il gruppo d’azione” della tifoseria capitolina, quando si rendono conto che sarebbe stato proibitivo resistere e magari controcaricare, decidono di salire verso i gradoni superiori del settore non immaginando che gli avversari li avrebbero seguiti fino a lì, non trovando nessun impedimento nelle forze dell’ordine, che anzi a un certo punto sembrano quasi abbandonare il terreno di gioco invece che frapporsi tra i contendenti come pure avevano fatto in circostanze analoghe precedenti. Come se ciò non bastasse, a un certo punto misteriosamente si spengono le luci dello stadio consentendo agli aggressori di agire pressoché indisturbati. Anche i telespettatori faticano a capire quello che sta realmente accadendo in campo e di certo non possono immaginare che gli scontri si estenderanno in tutta la regione e per due settimane!
Ma il peggio deve ancora arrivare.
La cosa più logica per quei tifosi ospiti che non intendevano ribattere all’offensiva era uscire dal settore tramite i cancelli; dei tre che solitamente regolamentavano l’accesso dei sostenitori ospiti, due erano stati saldati definitivamente dopo gli scontri tra gli ultras dell’Al Masry e quelli dell’Al Ittihad, mentre l’unico che era ancora aperto era stato misteriosamente chiuso prima della fine del match dal responsabile della sicurezza del club locale. È proprio nella calca che si crea nel tunnel che conduce a quel cancello che si verifica la maggior parte delle morti, compreso un ultras che era uscito brevemente in precedenza e al suo rientro, trovandolo chiuso, riesce ad aprirlo con una pietra, ma successivamente viene schiacciato dalla ressa. Secondo le non eccessivamente accurate perizie dei giorni successivi, altre vittime hanno perso la vita dopo essere state colpite da oggetti contundenti o da coltelli, mentre altre sono morte cadendo dalla parte superiore del settore.
Il bilancio finale di questa guerriglia è drammatico: 74 vittime, alcune delle quali morte addirittura negli spogliatoi della squadra ospite mentre cercavano rifugio; uno di essi è spirato tra le braccia del calciatore idolo Aboutreika. Sin da subito cominciano a susseguirsi senza soluzione di continuità voci su una non meglio definita infiltrazione di nostalgici del vecchio regime, o allo stesso tempo di strage studiata a tavolino dalla autorità, d’altronde lo stadio di Port Said non è lontano dal Canale di Suez, la città con le più grandi caserme, quartier generali e campi di addestramento dell’esercito.
L’opinione pubblica rimase sconvolta da questa vicenda, aveva iniziato a familiarizzare con gli ultras e in particolare con gli Ultras Ahlawy durante le memorabili giornate di mobilitazione cairote, in cui cominciarono a essere visti quasi come degli eroi vista la generosità con cui si battevano contro la polizia e per l’allegria e l’immaginario che avevano introdotto in quei frangenti facendoli diventare un movimento degno di essere tenuto in considerazione nelle rivendicazioni (a dir la verità mai particolarmente specifiche) e anche oggetti di studio accademico. Era come se qualcosa nel processo sociale egiziano si fosse rotto per sempre, non sono pochi a dire che la “Primavera egiziana” terminò quel giorno con tutto il suo carico di aspettative e speranze.
Appariva lapalissiano il coinvolgimento delle forze dell’ordine in questo massacro. Quello che non era e non risulta tutt’ora chiaro è se sia trattato di semplice lassismo o se invece si trattasse di complicità se non addirittura di regia occulta con l’intento di farla pagare agli Ultras Ahlawy per il ruolo fondamentale avuto nelle sollevazioni di Piazza Tahrir, ridimensionandoli in maniera definitiva anche per il loro comportamento eccessivamente irriverente nei confronti delle forze dell’ordine (come dimostrano gli scontri con la polizia avvenuti in diverse occasioni e sempre scatenati dai cori ironici degli ultras e dalla reazione spropositata della polizia) e per riaffermare un’altra volta i rapporti di forza all’interno di una situazione magmatica com’era quella del dopo-Mubarak, in cui la polizia aveva sfruttato ogni crepa nel sistema e ogni vuoto di potere per estendere il proprio potere, aumentare le proprie prerogative e mettere le cose in chiaro in vista dell’imminente ristrutturazione sociale.
Due settimane dopo la tragedia, furono arrestati diversi alti ufficiali di polizia: Abdel Aziz Fahmy del CSF; Il generale Essam Samak, capo della direzione della sicurezza di Port Said e i suoi due assistenti, il generale Abu Hashem e il generale Kamal Gad El Rab; il generale di brigata Mohammed Saad, il capo della polizia marittima di Port Said, incaricato della sicurezza nel settore ospiti. In totale vennero rinviate a giudizio ben settantadue persone, tra cui ovviamente diversi Green Eagles altri ultras locali e personaggi ritenuti delinquenti comuni (visto che lo stesso gruppo ultras è quello di estrazione più popolare al seguito della squadra di Port Said e secondo i suoi detrattori troverebbe un habitat consono proprio negli ambienti della microcriminalità locale).
Il processo che ne seguì non si discosta molto dall’idea che ci siamo fatti sul funzionamento più generale della giustizia in Egitto – visto che inevitabilmente il verdetto sarebbe stato politico – che molti di noi si sono fatti in seguito al tragico omicidio di Giulio Regeni, e dopo pochi mesi, fu trasferito al Cairo – precisamente nell’aula bunker all’interno dell’accademia di polizia – ma come spesso accade nei grandi misteri di Stato (e noi dovremmo saperne qualcosa), più sembrano chiare la dinamica e i mandanti, più è difficile trovare le prove schiaccianti.
Sin da subito appariva chiaro come le forze di polizia avessero cercato in ogni modo di trovare un qualsiasi capro espiatorio in grado di scagionarle totalmente. Venne istituita una commissione parlamentare apposita per occuparsi del massacro di Port Said (che a dirla tutta era stata allestita frettolosamente e da gente priva di competenze tecniche), che produsse un rapporto dopo circa una decina giorni, dove nonostante l’approssimazione con cui veniva affrontata la questione, si evinceva come tutte le norme della FIFA in merito alle misure minime di sicurezza per l’accesso o l’uscita dagli stadi erano state disattese.
Furono ben settantatré gli imputati, tra cui nove alti funzionari di polizia, tre funzionari della squadra di calcio Masry e un certo numero di tifosi; il primo processo si concluse con ventuno condanne a morte, ovviamente tra di esse non vi era nessun funzionario di polizia, d’altro canto sembra uno schema collaudato quello dell’impunità delle forze dell’ordine egiziane dentro gli stadi (e non solo…). In ogni caso, nel secondo grado del processo, le condanne a morte scesero a 11, così come diminuirono le pene inflitte ai poliziotti condannati che da 15 anni scesero a 5. Per la serie “come scontentare tutte le parti in causa senza colpo ferire”, poiché era chiaro che la sentenza aveva una matrice pilatesca cercando di non fare particolari torti a nessuna delle parti in causa, come dimostra anche l’atteggiamento delle autorità che nella settimana in cui era previsto il verdetto chiusero preventivamente la rete metropolitana della capitale temendo dimostrazioni massicce.
Nel frattempo, fuori dai tribunali e nelle strade delle due città egiziane andavano in scena dimostrazioni di segno opposto: come era facilmente immaginabile, il verdetto e le relative condanne a morte furono accolte con scontri e il tentato assalto da parte della folla al tribunale di Port Said, che poi si protrasse nelle vie circostanti col risultato della morte di cinquanta manifestanti, due guardie carcerarie e di quasi ottocento feriti. Mentre nella capitale, se da un lato la frangia più oltranzista si diresse verso il Ministero dell’Interno per protestare contro il proscioglimento degli agenti di polizia imputati, ci fu moderata soddisfazione generando una sorta di cortocircuito che vedeva uno dei principali simboli della ribellione venire placato e assecondato dall’operato di un Tribunale Speciale che per l’occasione aveva comminato il numero più alto di condanne a morte dalla cacciata di Mubarak (primato che comunque non sarebbe durato a lungo…). In poche parole il delitto perfetto. Non solo perché contrapponeva due città, due sensibilità e di conseguenza l’opinione pubblica nazionale rompendo definitivamente l’unità di intenti popolare, ma anche perché in seguito a questo tragico episodio il campionato venne sospeso per un anno e gli stadi chiusi per diverso tempo, privando di fatto la società egiziana di uno dei pochi spazi liberi dal controllo poliziesco e togliendo di fatto linfa vitale a chi non voleva lasciare a metà il processo rivoluzionario azionato nel 2011.
Da quel momento, ovviamente, la vita e le attività degli UA’07 non furono più le stesse con un epilogo che sembrava tristemente annunciato con largo anticipo. L’iperesposizione mediatica che li aveva investiti nel 2011 si rivelò un’arma a doppio taglio e li costrinse a pagare un conto salatissimo, traducibile in un netto quanto inevitabile arretramento strategico non trovando neanche quella sponda auspicata nel movimento rivoluzionario (sembra che addirittura in un episodio ci furono tensioni in un corteo), e ciò li portò a ben più miti consigli, facendogli abbandonare quasi del tutto le rivendicazioni politiche e portandoli a concentrarsi sui diritti dei tifosi, ad esempio sottoscrivendo una dichiarazioni insieme a tutti i principali gruppi ultras egiziani (a eccezione dei Green Eagles) a favore della presenza di società di sicurezza private negli stadi al posto degli agenti di polizia, e del loro ritorno allo stadio visto che il campionato era stato sospeso per oltre un anno.
Essi poterono rientrare sugli spalti per la prima volta solo nel 2014, ma solo nei match internazionali, e da quel momento i principali scopi del gruppo diventarono la ricerca di vendetta e giustizia per il massacro di Port Said e la preservazione del ricordo dei loro martiri – come pure avevano provato a fare già a partire dal 2012 chiedendo alla squadra di prendere una posizione netta in merito, ma senza tanta fortuna ad eccezione della bandiera Aboutreika – depoliticizzando ulteriormente il loro intervento sociale, proprio come desideravano i loro avversari, come dimostra il ruolo marginale avuto durante le manifestazioni che fecero cadere Morsi.
Addirittura declinarono la proposta del nuovo Presidente egiziano Abdel El Sisi di far partecipare dieci loro membri a una commissione d’inchiesta, adducendo l’onesta motivazione che non avrebbero potuto fare parte di una commissione giudicante riguardo a un fatto di cui erano parte in causa, anche perché proprio l’azione repressiva dello Stato, insieme a una campagna mediatica orchestrata ad arte, portarono allo scioglimento degli Ultras Ahlawy (e dei White Knights dello Zamalek) nel maggio del 2018, quando bruciarono il loro striscione e rilasciarono un loro comunicato su Facebook, ponendo la parola fine a uno dei principali e gloriosi vettori di autodeterminazione per giovani e lavoratori, ma ponendola a testa alta, da veri ultras che non volevano scendere a compromessi, ma col cuore gonfio di rabbia e dolore.
Giuseppe Ranieri