Il 15 aprile Arturo “Thunder” Gatti avrebbe compiuto 49 anni. Un po’ imbolsito ma sempre con quel sorriso magnetico, lo sguardo malinconico e la faccia segnata, incarnerebbe alla perfezione il ruolo della leggenda, del vecchio campione sornione. Non disdegnerebbe ospitate tv e qualche telecronaca da bordo ring, per racimolare qualcosa e sbarcare il lunario dopo una vita di sperperi. Per sostenere famiglia e stile di vita da sempre sopra le righe, affatto pauperista, tipico di chi è nato povero e ha avuto successo. Di chi ha patito troppe privazioni e ora non può far altro che esagerare. Per riempire un vuoto. Per scacciare il passato di sofferenze. Per esorcizzare la puzza di povertà che rimane addosso. Morto di fame anche se miliardario. Per sempre paisà. Immigrato.
Insomma oggi Arturo sarebbe una vecchia gloria. Qualche investimento sbagliato, magari una catena di ristoranti. Una palestra. Chissà. Un signore di mezza età. Autografi sempre più rari, aste di qualche cimelio sportivo. Qualche reality. Di sicuro gli sarebbe rimasto amico Micky “Irish” Ward, il rivale di sempre. Un altro figlio di immigrati. Un altro nato povero, ai margini, come raccontato nel film ispirato alla sua vita The fighter. L’avversario con cui è andata in scena una delle trilogie più struggenti della storia del pugilato. Autentica epica del ring. Non Alì vs Frazier. Non Morales vs Barrera. Non Patterson vs Johansson. Quelli sì incontri meravigliosi e trilogie da manuale. Ma niente a che vedere con Gatti vs Ward. “The War”. Trenta round e neanche un titolo mondiale in palio. Solo il gusto di stare testa a testa al centro del ring. Novanta minuti di ganci, diretti e montanti ininterrotti. Sempre alla corta distanza. Fratture e traumi. La notte insieme in ospedale, vicini. Fratelli e amici per sempre. È questa “la trilogia” della boxe. Non altre.
Tristemente, però, Arturo Gatti non è mai diventato l’uomo di mezz’età imbolsito di cui sopra. E non può neanche dare consigli a qualche giovane campione, rispolverando i movimenti di chi di pugilato è vissuto. La sua vita è finita l’11 luglio 2009, a 37 anni, in un resort a Porto de Galinhas in Brasile. Riverso in una pozza di sangue. Nel corpo droghe, alcool e qualche farmaco. In cima alle scale una cintura con cui si sarebbe impiccato, prima di crollare sul pavimento. Sul tavolo una carta di credito e la cocaina. Molti i dubbi. Troppe le accuse. Suicidio per le autorità. “Suicidato” per la famiglia, che incolpa la seconda moglie Amanda Rodriguez. Che viene anche indagata e messa agli arresti, perché il suo racconto è pieno di contraddizioni. Perché rimane dieci ore con il corpo del marito nell’appartamento senza avvertire nessuno. E poi Gatti ha due grandi lividi dietro il collo. Come se fosse stato colpito e poi soffocato, incosciente. Ma poi Rodriguez viene rilasciata, per le autorità è innocente. Alla fine per la giustizia è suicidio.
Una storia intricata, un caso giudiziario contorto in cui si confondono le colpe e si sfumano le responsabilità. Da una parte la famiglia e gli amici, dall’altra appunto la moglie. Accuse reciproche. Affetti contro affetti. Sangue contro sangue. In mezzo l’eredità di un uomo e di un pugile. E anche tanti soldi. Di sicuro in quel momento i due non sono una coppia modello. Sono ai ferri corti. Litigano spesso, il divorzio è dietro l’angolo. Ci sono anche maltrattamenti e Amanda denuncia Arturo. Che quando beve diventa violento, inutile negarlo. Ma poi fanno pace. Quel viaggio deve essere di riconciliazione. Per il figlio di dieci mesi, Arturo jr. Ma anche lì, in un paradiso tropicale del nordest brasiliano, le cose non vanno bene. Riesplode l’inferno. Lei distante, lo umilia di continuo e lo sbeffeggia. Lui quasi sempre ubriaco. Sempre più frustrato. Chiuso in se stesso.
A dirla tutta, la vita di Arturo naufraga subito dopo il ritiro. Dopo la famosa frase in diretta tv seguita alla sconfitta per ko contro Alfredo Gomez, il suo ultimo incontro: «Hasta la vista ragazzi! Non posso più subire punizioni del genere. Non posso combattere ad armi pari nella categoria dei welter e alla mia età non posso più scendere sotto le 147 libbre. Perciò vi saluto. Ringrazio tutti, tutte le persone che mi hanno seguito e hanno tifato per me con grande calore e affetto per tutti questi anni. Tornerò ancora alla Board Walk Hall, ma questa volta solo come spettatore». Poi un sorriso e la pensione. Dopo aver appeso i guanti al chiodo però, arrivano i problemi. A valanga. Alcool, psicofarmaci, droga. Tanta, troppa cocaina. Come per molti pugili campioni, fuori dal quadrato la vita perde di senso. Tutto diventa uguale. Piatto. Le mattine come le sere. Ci si alza a fatica dal letto. Non si prova più nulla. L’adrenalina rimane una reminiscenza. Tutto è statico. E quindi bisogna gettarsi fra le braccia delle sostanze, per riannodare i fili, per trovare un senso. Per tirare avanti. Mentre il fisico collassa, la vista si abbassa e arriva il conto salato di sedici anni di carriera, 49 vittorie (31 per ko), 9 sconfitte. Traumi e dolori che diventano cronici, costanti. Insostenibili. La vista che si annebbia. La depressione che monta. Perdenti nell’unico incontro importante, quello contro la vita. Loosers. Così si sentiva “Thunder” dopo aver abbandonato le sedici corde.
Ma prima di quel buco nero fatto di abusi e autodistruzione, dipendenze e relazioni tossiche, Arturo Gatti è un pugile dalla storia incredibile. Fenomenale. Uno che esalta gli appassionati. Un combattente puro. Cuore e fegato. Nasce a Cassino da genitori originari del casertano, si trasferisce molto piccolo in Canada. La sua è una vita da immigrato, da paisà, come vengono chiamati gli italiani. A casa si parla dialetto. La sua terra delle grandi occasioni diventa il Canada, la versione sfigata degli Stati Uniti. Più fredda. Più inospitale. Ma comunque casa. La famiglia sceglie Montreal.
A quindici anni Arturo perde il padre, elettricista e gran lavoratore, ma anche appassionato di pugilato. Così in memoria del genitore scomparso, per proseguire il suo sogno da immigrato, si dedica al ring con più convinzione. Inizia una discreta carriera amatoriale. Vince qualche titolo nazionale, ottiene la possibilità di andare alle Olimpiadi di Barcellona a rappresentare il Canada, ma decide di passare professionista. Secondo i suoi allenatori del tempo, un errore di cui si pentirà. Ma invece è la scelta giusta. Gatti preferisce i dollari alle medaglie olimpiche. Perché è stanco del caschetto e della canottiera, ma anche perché il suo stile non è fatto per quel tipo di pugilato. Per esprimere le sue potenzialità ha bisogno di combattere su più riprese, scatenare tutta la sua foga. Mostrare quanto è resistente, non giocare di scherma. Ecco perché vuole il professionismo. Affamato, è così che comincia la sua carriera negli States. E appena diciannovenne Gatti si trasferisce nel New Jersey. Un’altra seconda scelta. Lontano dalle luci di Manhattan, la provincia dell’impero. Ma un buon posto per gli italoamericani. Una nuova casa.
Fin da subito fa scintille. Si capisce che quella è la strada giusta, fare a cazzotti ed essere pagato. Gli riesce benissimo. Sei incontri, sei vittorie. Cinque per ko. Poi la prima sconfitta. Un passo falso per split decision, ma non sfigura. Fa sempre spettacolo. È un torello. Poi diventa un rullo compressore. Ventitré vittorie di seguito. Dopo le prime dieci, il primo titolo: campione americano dei superpiuma (entro le 130 libbre, circa 58,98 chilogrammi) contro Pete Taliaferro per decisione unanime. Poi ancora tante volte con il braccio levato al cielo. Tre difese del titolo, tre vittorie. Poi dopo altre due vittorie e finalmente il salto di qualità: il primo titolo del mondo Ibf (International Boxing Federation) contro Tracy Harris Patterson, vinto ai punti. Altre difese e la prima grande battaglia da almanacco della boxe, quella contro Gabriel Ruelas il 4 ottobre 1997. Primo Fight of the year della sua carriera. Quarto e quinto round di fuoco. A quel punto il suo record è 28-1. Non rifiuta mai lo scambio. Non si sottrae. È questo il suo stile. Fa paura. Se viene colpito incassa e restituisce il colpo più forte. Vuole solo dimostrare di avere un cuore grande. Di essere quello più resistente. Una pellaccia.
Poi sale nei pesi leggeri e subisce tre sconfitte di seguito. Le prime crepe. Perde due volte contro Ivan Robinson che diventa la sua nemesi. La prima volta, quella del 22 agosto del 1998, è un altro Fight of the year. Gatti perde perché è spregiudicato, non fa tatticismi. O lui o il suo avversario. Schiva poco, non si risparmia. Cerca solo la battaglia. Dopo le sconfitte però si riprende: infila quattro vittorie. Nel marzo 2001 un altro stop: incontra un fenomeno, Oscar De la Hoya, che lo domina e lo mette ko. Troppa classe il messicano. Poi un’altra vittoria e la trilogia con Micky Ward. Tre incontri brutali. L’apice della sua carriera. Il primo vinto da Ward, il 18 maggio 2002. Il sangue già nel primo round. Gatti parte forte, ma Micky rimonta con la faccia insanguinata. Tiene duro e alla fine la spunta, mettendo a segno due knockdown. Il secondo capitolo il 23 novembre 2002, ad Atlantic City. Questa volta Gatti è più furbo. Non accetta sempre lo scambio, gioca più sul tempo e sull’astuzia. Entra ed esce. Ottiene la sua vendetta. Poi il terzo e ultimo capitolo. Un altro assalto alla baionetta, anche se dal suo angolo preparano un’altra tattica. Non hanno lavorato per un testa a testa. Ma è più forte di lui. Anche questa volta lo spettacolo è unico. Lividi e schizzi di sangue. Tonfi sordi. Altro Fight of the year, il 7 giugno 2003.
Poi la parte finale della carriera di “Thunder” è naturalmente in fase discendente. Un altro titolo mondiale vinto nei superleggeri contro l’italiano Gianluca Branco, poi due difese e la sconfitta con Floyd Mayweather Jr., per abbandono al sesto round. Qui una scena straziante: l’angolo che dice «no more» e «too much» durante il controllo medico a fine round, mentre Arturo col volto tumefatto, quasi in trance, vorrebbe ancora combattere. Supplica per continuare. Per lui non è mai abbastanza. Dopo Mayweather c’è l’ultima vittoria, contro un pugile imbattuto Thomas Damgaard (record di 37-0). Mai un incontro semplice per Gatti. Mai una scorciatoia. Neanche a fine carriera.
A questo punto però non è più lo stesso. Riflessi rallentati, ritmo tutt’altro che incalzante, mani lente. È segnato. È chiaro a tutti che siamo agli sgoccioli della sua vita pugilistica, ma lui non si rassegna. Non è uno che finisce la carriera con una vittoria. È uno che bisogna trascinare giù dal ring. Anche ora che è tragicamente soggetto a ferite e tagli. Suo problema annoso, ma ormai insormontabile. Doppiamente segnante per un pugile abituato agli scambi feroci, ai corpo a corpo selvaggi. Un picchiatore. Ma lui non vuole farsene una ragione. Vuole insistere ancora. Così arrivano gli ultimi due incontri, ovviamente due sconfitte. L’ultima contro Alfonso Gomez a cui segue il famoso ritiro con tanto di: «Hasta la vista, ragazzi!», come ricordato in precedenza. Per farlo smettere, hanno dovuto abbatterlo. Nel morale, oltre che nel fisico. Lui avrebbe continuato a testa bassa. Caricando. Ma ormai non ha più senso. Due sconfitte pesanti contro due pugili che avrebbe dominato in altri tempi. È la pietra tombale sulla sua carriera.
C’è una frase di Mike Tyson che la dice lunga sui processi mentali dei pugili, sui loro stimoli: «La tentazione della grandezza è la droga più potente del mondo». In questo caso, però, per il pugile nato a Cassino e vissuto fra il Canada e il New Jersey, il motore non è mai stato la grandezza. Né forse la fama. Ad Arturo Gatti non interessava neanche tanto essere campione, essere il più grande. Gli piacevano i soldi, ma non troppo. Voleva solo sopravvivere. A lui bastava rimanere in piedi col volto tumefatto dopo un incontro. Gonfio, insanguinato, zigomi pesti. Nocche frantumate. In piedi, con l’avversario al tappeto. Oppure con il braccio sollevato mentre l’altro abbassava lo sguardo, sconsolato e triste. “Thunder” voleva essere solo l’ultimo a mollare. Il più tenace. Gli interessava dimostrare di essere il più duro. Tuff. Se fosse stata una rockstar avrebbero detto life fast die young. Ma Gatti non era una rockstar. Né un poeta. Né uno scrittore. Né un’artista. Era solo uno che sapeva fare a botte. Niente di più.
Filippo Petrocelli